La stanza di zia Léonie. I

di Barbara Biscotti
(13.12.2020)

«quella zia Léonie che dopo la morte di suo marito, lo zio Octave, non aveva più voluto lasciare, dapprima Combray, poi la sua casa di Combray, poi la sua camera, infine il suo letto, e non “scendeva” più, sempre coricata in un vago stato di afflizione, di abbattimento fisico, di malattia, di idea fissa e di devozione»

La prima volta abbiamo reagito. È per due mesi, pazienza, ha pensato una parte di noi. L’altra parte, però, intanto ha ruggito, facendo sentire la propria voce sulle discutibili tecniche della gestione dell’emergenza – che pure non si nega – nascoste sotto quell’invocazione al pazientare, sulle mille interpretazioni della situazione in cui, ognuno cercando di mantenere a modo suo – tutti legittimi – una certa lucidità, abbiamo letteralmente “dato i numeri”.
Poi ci siamo illusi che si stesse tornando a una certa normalità. I più accorti sapevano che si trattava di mera illusione. Ma pazienza, ancora.
Ora è sotto gli occhi di tutti il fatto che l’emergenza è destinata a durare. E a lungo.
Ma qualcosa nel frattempo è accaduto. Temo, in generale, per un senso di maggior acquiescenza e rassegnazione che si percepisce nell’aria, accompagnato da una cupezza che non è solo legata all’avvicinarsi del solstizio d’inverno. Ma qui compio un esame di coscienza, facendo riferimento anche a quanto mi sento dire da altre e altri che, come me, nella vita fanno gli “intellettori”, cioè quelli che di mestiere usano il loro intelletto come strumento (personalmente preferisco riservare il termine “intellettuale”, che non mette in luce la natura umilmente artigianale di tale attività, a pochi e senz’altro non a me).

Ora, nell’animo di ogni intellettore alberga da qualche parte una “stanza di zia Léonie”. Proust riandava con la memoria agli odori confortanti di quel luogo, al senso di calore e cose buone che evocava. Ma erano memorie infantili. Importanti, ma infantili.
È vero, ognuno di noi sa bene che si tratta di una bella stanza, piena di libri, di cose da osservare, smontare e rimontare, in cui ci si può rifugiare, si può fare in santa pace il proprio modesto lavoro di chi ha la fortuna di poter pensare e costruire forme, a volte utili, a volte inutili, fatte di pensiero. Ogni intellettore, specie oggi che la modernità l’ha relegato nella classe del cognitariato chiamata a stare alla catena di montaggio dei saperi, anela ad avere ancora dei momenti in cui chiudersi lì dentro e costruire con amore e cura i propri oggettini, libri essenzialmente.
Ma ora è diverso. Ora scopriamo improvvisamente di non essere più i visitatori pieni di stupore della stanza di zia Léonie, che entrano, mangiano il boccone di madeleine intinta nel the ed escono appagati, pronti ad affrontare la giornata e a vivere il mondo.
Ora ci ritroviamo a essere zia Léonie, che si ritira dal mondo in seguito a un lutto.
Di fronte ai lutti si può reagire in due modi. O si lascia passare il tempus lugendi, quello necessario a ciascuno, e piano piano si torna al mondo, cambiati ma ci si torna. O ci si lascia annientare dalla perdita, ritirandosi in uno spazio interno, ovattato, dove l’aria è «satura della quintessenza di un silenzio così sostanzioso, così succulento, che non m’addentravo in esso senza una sorta di golosità». Un silenzio rassicurante, certo, ma intessuto di rinuncia al mondo.

Annichiliti dal lutto per la morte delle nostre diverse libertà, molti di noi non si sono resi conto, come zia Léonie, del fatto che stavamo noi stessi, con i nostri corpi-menti, scivolando in una progressiva autoreclusione, dalla città alla casa, poi alla stanza: da ultimo ci attenderà il letto. Poco alla volta stiamo noi stessi uccidendo la prima tra le nostre libertà, quella intellettuale. La fatica di varcare la soglia della stanza, della casa, che ci immette negli spazi della polis, è stata sovraccaricata di ostacoli, di prove eroiche, cui anche il rigido clima invernale aggiunge il suo carico. E a mano a mano ci siamo adattati al confortevole piccolo spazio caldo della nostra stanza, in cui possiamo giocare con i nostri balocchi e nel quale però il corpomente, avendo poca metratura per muoversi, si rattrappisce, perde elasticità, e soprattutto non incontra altri corpimente con cui confrontarsi e misurarsi.
Dunque, attenzione a questa deriva. Perché è quello che da molte parti si vuole.
Parafrasando un vecchio slogan, c’è una zia Léonie in ognuno di noi: uccidila.

Dunque, forza zia Léonie, rimetti in moto le gambe, anche se solo sulla cyclette. Che magari poi, nonostante il freddo e l’aria inquinata, esci e vai a fare una passeggiata. Incontrare l’altro, anche con la mascherina e la distanza, può attivare cortocircuiti importanti. Non lasciamo che la fatica, le difficoltà ci scoraggino. Proponiamoci di incontrare ogni giorno qualcuno, fosse anche solo il giornalaio. Ma di incontrarlo davvero, parlarci.
E rimettiamo in moto le menti, che magari, invece di raccontarcela da soli, dentro i nostri libri, ne incontriamo altre. E se la pensano diversamente da noi, è pure meglio, che si fa un po’ di stretching più intenso… Discutere, confrontarsi, arrabbiarsi sia il nostro calendario dell’avvento: ogni giorno riflettere insieme a qualcun altro su un aspetto del presente.
Perché per i pochi intellettuali e per i molti intellettori pensare nella/per la/con la polis non è una scelta, bensì un dovere. Basta leggere Gramsci ogni mattina, quando ci si sveglia, per balzare su da quel letto della zia e uscire dalla porta della stanza, della casa:

“L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente.”

(A. Gramsci, “La Città Futura”, in L’Ordine Nuovo, 11 febbraio 1917)

Signor Presidente, lei non può decidere della mia vita e della mia morte

Una signora di 88 anni così scrive a Macron. Da queste parole, da cui traluce un sereno orgoglio e un senso pieno della vita, impariamo la superba dignità di chi rivendica, a voce alta e chiara, la libertà di essere signori dello stile della propria vita e della propria morte

J’ai 88 ans, M. Macron, qui êtes-vous pour décider de ma vie et de ma mort?

di Madame X
da « Riposte Laïque » 23.10.2020

« Bonjour Monsieur le Président,
Je m’appelle Madame X, j’ai 88 ans.

Ce n’est pas moi qui tape cette lettre, je ne sais pas trop comment faire. C’est donc mon arrière-petite-fille de 19 ans qui écrit sous ma dictée.

Je vous écris aujourd’hui pour vous dire toute ma colère contre vous, vos ministres, et vos conseillers « scientifiques ». Qui êtes-vous, jeune godelureau, pour penser et décider à ma place, de ce qu’est ma vie, de ce que sera ma mort ?

J’ai 88 ans, j’ai eu une belle vie, avec ses hauts et ses bas, ses joies et ses blessures, comme tout le monde, je présume.

Dans les hauts, j’ai eu 5 enfants, tous mariés, qui ont eu à eux tous, 15 petits-enfants. La plupart de mes petits-enfants (12) sont aussi mariés, et ont maintenant à eux tous, 27 enfants. J’ai donc 27 arrières-petits-enfants.

Si vous savez compter, ma famille, issue de mon mariage avec mon regretté Robert, se monte à 54 personnes. Sans parler de la famille de mes frères et sœurs, que je vois encore régulièrement. À nous tous, nous sommes plus de 250, qui nous réunissons tous les 15 août… enfin, sauf en 2020, grâce à vous.

Et encore, 2 de mes arrière-petites-filles viennent de se marier. SANS MOI !!!
Grâce à vous et vos sbires, elles ont toutes les deux été privées de leur famille au complet, et amis, car vous avez interdit les rassemblements familiaux de plus de 30 personnes pour ME PROTÉGER, MOI !

Et accessoirement, mes enfants, qui ont 60 ans et plus.
Mais je ne vous ai rien demandé !

QUI ÊTES-VOUS POUR DÉCIDER DE MA VIE ET DE MA MORT ?
Moi, je veux VIVRE auprès des miens, les voir, les embrasser, rire et pleurer avec eux, SANS RESTRICTIONS.

Et si j’en meurs, eh bien, c’est que ce sera mon heure. Je mourrai heureuse d’avoir profité de leur présence, de leur joie et de leur amour jusqu’à la fin de ma vie.
Je refuse que vous m’obligiez à vivre seule, loin de toutes et tous, sans aucun contact physique, sans câlins de mes amours, sans leur rire devant mes gâteaux… Et encore, j’ai la chance de vivre chez moi.

Mais je pense à mes amis, qui vivent en Ehpad, emprisonnés dans leur chambre, sans voir personne, qui ont dû supporter la chaleur cet été, car on leur a interdit le ventilateur dans leur chambre. Ils sont en train d’en mourir ! De tristesse et de solitude. Vous êtes en train de les tuer bien plus sûrement que le covid. Et en plus, vous les priverez de la présence de leur famille lors des obsèques, limitées elles aussi en nombre de personnes présentes.

Pourtant, vous, vous vivez bien avec une femme de plus de 65 ans. Elle n’est pas à risques ? Pourquoi ne pas l’isoler de tous contacts, elle aussi ?

En fait, selon les critères que vous nous appliquez, vous la mettez en danger, elle aussi…
Encore une incohérence de votre part.
Ma petite-fille n’a pas pu se marier avec ses amis, mais ses frères et sœurs sont venus en trains bondés, avec parfois plus de 5 heures de trajet…

Logique, selon vous ? Vous autorisez 700 personnes à se réunir sous un chapiteau, mais vous interdisez 100 personnes sous une tente de mariage ?

Vous nous interdisez de vivre car vous avez sabré les lits d’hôpitaux, sous Hollande, puis vous, directement. Vous parlez de saturation, car 1 500 personnes sont en réanimation. 1 500 personnes sur 66 millions de Français ? De qui vous moquez-vous ? D’autant que toutes ne le sont pas pour des raisons de covid.

Il y a environ 50 morts par jour, ATTRIBUÉS au covid. Est-ce une raison pour moi, mes amis, nous les « vieux », de nous priver de vivre ?

Sans compter tous les Français, condamnés à la peur, au désespoir et au chômage à cause de vous… Vous ne voulez pas que nous, les vieux, nous mourrions, mais vous vous servez de nous pour faire mourir toute la France !

Monsieur le Président, laissez les Français tranquilles, LIBRES DE DÉCIDER DE LEUR VIE ET DE LEUR MORT !

Sachez qu’à partir d’aujourd’hui, 12 octobre 2020, je vais vivre comme je l’entends, en recevant qui je veux, et j’embrasserai tous ceux qui viendront me voir.

Votre avis, comme disait mon cher Robert, « je m’en tamponne le coquillard ».

Bien à vous,
Madame X »

Sul terrore

di Alberto Giovanni Biuso
(13.6.2020)

Il terrore paralizza, il terrore interrompe il pensare, il terrore trasforma gli umani in foglie tremule che temono di staccarsi da un momento all’altro dall’albero della vita. Ma questa è sempre la condizione dei viventi. Il panico mediatico e politico sulla fragilità dei corpi che è emerso nell’anno 2020 non è giustificato dalla dimensione sanitaria dell’epidemia da Covid19. 

Le grandi pandemie della storia umana recente – tutti conoscono per ragioni letterarie quelle del 1348 e del 1630 e anche l’epidemia che falcidiò l’Europa subito dopo la Prima guerra mondiale mietendo cinquanta milioni di morti – hanno avuto una potenza letale e di contagio incomparabile con quella del virus attuale. Sino a che è possibile contare uno a uno il numero dei morti la parola pandemia è un dispositivo politico, non una descrizione sanitaria. 

Quanto avvenuto nel mondo in questi mesi non è paragonabile con le vere pandemie del passato. E tuttavia soltanto nel XXI secolo gli umani sono stati reclusi dentro i sepolcri delle loro case da sani; le quarantene del passato isolavano i malati dagli altri e non l’intero corpo sociale da se stesso, dispositivo anche logicamente assurdo. Soltanto nel presente il terrore mediatico si è scatenato contro individui solitari nelle campagne o sulle spiagge. Soltanto nel presente la suasione dell’autorità è entrata sino a tal punto nelle cellule e nei pensieri dei corpimente biologici e politici.