di Wu Ming
(ottobre 2020)
[Proponiamo due interventi tanto rigorosi quanto amari sulla catastrofe per la sinistra che la vicenda del Sars-Covid rappresenta. Il primo lo si legge qui: A proposito di tamponi, di positivi al tampone, di quarantene, di provvedimenti irrazionali e sacrifici umani ed è firmato Wu Ming. Il secondo è un commento di Wu Ming 1 allo stesso testo]
La cosa che più mi ha sorpreso e addolorato, in questo 2020, è la rapidità con cui, tra intellettuali e attivisti “di movimento”, si è ritirata ed è scomparsa – come in una vastissima bassa area – ogni riflessione su quale vita valga la pena vivere.
All’improvviso è rimasto solo un nocciolo di materialismo volgare, di riduzionismo economico che è anche riduzionismo biologico: per non crepare era non solo accettabile ma addirittura *bello* vivere come talpe, purché ci dessero i soldi.
Decenni di pensiero critico, di esperienze, di analisi, di momenti condivisi, sono stati gettati come zavorra.
Devo dire che non mi sarei mai aspettato di vedere la maggior parte del “movimento” ripiegarsi su questo, farne SOLO ed ESCLUSIVAMENTE una questione di richieste economiche. Che, intendiamoci, sono indispensabili. Ma non esauriscono tutto il discorso.
Davvero si pensa che la maggior parte delle persone accetterebbe di vivere «come piante grasse» (cit. AlexJC) a tempo indeterminato, a condizione di ricevere un bonifico? Che conoscenza dell’essere umano, che gusto per la vita e per la lotta, che idea di società – e di possibile società futura – ha in testa, chi pensa una cosa del genere?
Eppure è andata così, sono scomparse tutte le riflessioni sul fatto che vita non è solo sopravvivenza, e che la salute è un insieme complesso e una condizione sociale, non solo non prendersi un virus.
Si parlato quasi solo di reddito, senza riflettere sugli enormi prezzi esistenziali, psichici, culturali che l’apologia schizogena della reclusione domestica – perché questo è stato #iorestoacasa – ci avrebbe lasciato in eredità. No, si è implicitamente postulato un impossibile “rischio zero”, in nome del quale ripiegarsi in un privato privato di corpi.
Per mesi e mesi non si è detto pressoché nulla contro le strategie di deresponsabilizzazione che la classe al potere (non solo quella di governo, tutta: padronato, media, burocrazia ecc.) adottava. Anzi, chi denunciava la caccia al capro espiatorio veniva irriso, e so di compagne e compagni che a quella caccia hanno partecipato con zelo.
A chi criticava il governo è stato scagliato contro un appello incredibile, interdittivo, codino, con firme “di movimento” che non mi sarei mai aspettato.
A chi faceva notare che non si poteva sacrificare tutto il resto (il legame sociale, il vivere stesso!) in nome del “rischio zero” veniva dato del nazista, del darwinista sociale.
E si è fatta l’apologia delle piattaforme e delle app che consentivano di “sostituire” la vita “in presenza”.
Il massimo di risposta che si otteneva quando si sollevavano questi temi era: «non è il momento, ne parliamo dopo».
E intanto le peggiori tendenze avanzavano inesorabili.
Chiarisco un possibile equivoco: non mi sono mai atteso che la “sinistra radicale”, il “movimento” o altri clichés che usiamo per indicare questo sfilacciato network nel quale ci siamo formati potesse fare qualche differenza significativa. L’area aveva già i suoi bei problemi, a livello nazionale era già irrilevante, e quel che sta accadendo è più grande di noi tutte e tutti.
Mi sarei però atteso meno voglia di capitolare, meno acquiescenza, meno conformismo, meno collateralismo col governo, meno bava alla bocca contro i “reprobi” ecc.
Le piazze di questi giorni e queste notti, per quanto interclassiste, contraddittorie, confuse, strumentalizzate, non hanno posto solo il problema del reddito, che pure è fondamentale. Abituati al nostro gergo da “rifiuto del lavoro”, rischiamo di non capire che quando da quelle piazze è salito il grido «vogliamo lavorare!», significava «vogliamo vivere!», vogliamo avere una vita attiva, incontrare le persone. Idem quando si è alzato il grido «libertà!»: non è la “libertà” liberista, è l’autodeterminazione, è la libertà che sogna chi è stato esautorato da ogni scelta.
Anche in questa società divenuta sempre più tanatofobica, il vero incubo, soprattutto per gli spossessati, gli oppressi, i marginalizzati, non è morire ma smettere di vivere.
Di fronte a tutto quel che sta accadendo, ripensare oggi a quel che gran parte della “sinistra radicale” non ha visto arrivare può persino sembrare futile. Ma pensiamo alle rivolte in corso, e a quanta fatica si faccia a trovarne una decifrazione sensata (con poche lodevoli eccezioni) dove un tempo saremmo andati a cercarla. Pensiamo alla difficoltà di trovare un’interpretazione davvero ascoltante di quelle piazze e di quei riot. Pensando a ciò, forse il senso di questo sguardo retrospettivo si capisce, al di là del manifestare un dolore, e uno stupore che dura da mesi.