L’idiota a distanza

di Alberto Giovanni Biuso
(13.3.2021)

L’operare dell’informazione al completo servizio delle autorità è mostrata in questi anni in modo clamoroso dalla vicenda dell’epidemia. Se infatti è evidente che un virus esiste e colpisce -come è accaduto da sempre e sempre accadrà- è altrettanto chiaro come sia stato «facile, per le élites al potere, strumentalizzare queste circostanze a proprio profitto per colpire le libertà. Negli Stati Uniti, il Patriot Act è stato adottato per contrastare il terrorismo, dopo di che è servito a tenere al guinzaglio l’intera popolazione. Le leggi eccezionali finiscono per entrare nel diritto comune, cosicché l’eccezione diventa la regola» (Alain de Benoist, Diorama Letterario, n. 359, gennaio-febbraio 2021, p. 10).
Davvero

«mai censura è stata più perfetta. Mai l’opinione di quelli cui si fa ancora credere, in certi paesi, che sono rimasti cittadini liberi, è stata meno autorizzata a manifestarsi, ogni volta che si tratta di una scelta che coinvolgerà la loro vita reale. Mai è stato permesso di mentire loro con una così perfetta assenza di conseguenze. Si presume semplicemente che lo spettatore ignori tutto e non meriti nulla»

(Guy Debord, Commentari alla Società dello Spettacolo, § VIII; Baldini & Castoldi 2008, p. 203, con delle modifiche nella traduzione).

Il risultato è anche ciò che Michel Desmurget ha definito con il titolo Il cretino digitale (Rizzoli, 2020) e che prima ancora aveva descritto come TV Lobotomie. La vérité scientifique sur les effets de la télévision (J’ai Lu, 2013). Desmurget è infatti un neuroscienziato (direttore di ricerca del Cnrs francese), il quale «vede in opera meglio di chiunque altro la decerebrazione di massa operata sui giovani cervelli in fase di sviluppo e, disgustato, scortica metodicamente questo infanticidio planetario che non osa dichiararsi tale» (Jean-Henri d’Avirac, Diorama Letterario, n. 359, p. 39). D’Avirac continua la sua presentazione del libro affermando che «ridurre un giovane cittadino allo stato di semplice consumatore sommerso da segni e immagini, il cervello impantanato nella dopamina, ridotto fin dalla più giovane età alla dipendenza dallo schermo, dal porno, dalla moda, è una pacchia per il sistema, la cui ossessione è togliere i freni al consumo, sospendere il senso critico e la nostra capacità di stabilire delle gerarchie. […] La lobotomia è molto più efficace della repressione» (Id. p. 40).
Rivolgendosi ai genitori, Desmurget scrive: «I vostri figli vi ringrazieranno per aver offerto alla loro esistenza la fertilità liberatrice dello sport, del pensiero e della cultura, invece della perniciosa sterilità degli schermi» (cit. a p. 40). 

E invece le istituzioni educative -comprese quelle italiane- sono state pronte a gettare in braccio agli schermi gli studenti di ogni ordine e grado. Non si è trattato di una soluzione ma dell’aggravarsi di un problema, il problema -appunto- della idiozia digitale. Se scuole e università hanno potuto chiudere con tanta immediatezza e facilità le loro porte agli studenti – studenti senza i quali scuole e università non hanno ragione di esistere – è perché strumenti e apparati erano già pronti a sostituire la relazione educativa con degli ologrammi disincarnati. Senza questi software sarebbe stato inconcepibile chiudere per mesi o per anni le scuole e le università. Sono dunque le piattaforme MSTeams, Zoom e altre analoghe ad aver causato un processo di impoverimento didattico e culturale che probabilmente è solo agli inizi. La cosiddetta DAD, che meglio si dovrebbe definire didattica d’emergenza, è – in questa prospettiva – l’incipit della barbarie pedagogica. E questo perché ‘insegnare a distanzaè una contraddizione in termini, perché ‘apprendere a distanza’ è una delle caratteristiche dell’idiota digitale che si vorrebbe tutti noi diventassimo: «La DAD diventa, così, un mirabile esempio di neolingua chiamata a sovvertire la realtà e ad ipotecare pesantemente il futuro dell’istituzione» (Fernanda Mazzoli, La scuola ai tempi del Covid: prove generali di colonizzazione digitale, in «Koiné», anno XXVII, 2020, p. 16).

La didattica del vuoto ha come orizzonte fondativo e come prospettiva futura ciò che Renato Curcio chiama il maestro vuoto, la cui «video-lezione, come lezione spettrale, appiattisce quest’ultima sulla mera trasmissione di nozioni, avvicinandola così a quel sapere procedurale messo in campo dalle nuove tecnologie assai più di quanto non possa farlo la lezione in presenza, la tanto attaccata lezione frontale che permette la lenta e dialogata costruzione delle conoscenze (e dei significati) a partire dalla sollecitazione ineludibile posta dal volto dell’altro e dall’instancabile attesa -carica di tutte le sfumature di un volto umano- che ne promana» (Id., p. 40).
Un maestro vuoto atto a sostituire la persona viva e socratica di colui che alla relazione pedagogica -e di conseguenza al fatto educativo- dà voce, volto, pienezza. Il maestro vuoto è il coach della palestra dell’ignoranza e della conseguente obbedienza collettiva.

Un delirio collettivo

di Alberto Giovanni Biuso
(22.6.2020)

Fisiologiche e frequenti sono nelle collettività umane le ondate di delirio collettivo causate da diverse ragioni e circostanze: guerre e fanatismi bellici atti a mobilitare cittadini e sudditi verso la loro morte e quella altrui; millenarismi religiosi pronti ad assicurare che un qualche regno dei cieli è vicino e basta fare qualcosa – ad esempio recarsi a piedi a Gerusalemme e conquistarla nel nome di Cristo (1096)– per ottenere la garanzia della salvezza; epidemie e contagi che spargendo il terrore supremo giustificano ogni ordine e decreto delle autorità pro tempore, qualunque sia il loro segno politico.

In nome del contagio da Covid19 e della pandemia psichica da esso scatenata si proibiscono i matrimoni tra omosessuali; si dà la caccia a solitari camminatori sulle spiagge; si lasciano in angosciosa solitudine i moribondi; si sprangano scuole, università e biblioteche facendo precipitare il corpo sociale in quelle che una volta si chiamavano le «tenebre dell’ignoranza», sostituendo la relazione viva con un algido e sterile contatto digitale/telematico/virtuale tra insegnanti e allievi.

E inoltre, a clamorosa negazione di anche recentissime campagne ecologiche, si suggerisce l’utilizzo dell’automobile privata come ‘mezzo più sicuro’ rispetto a quelli pubblici; si impongono mascherine/museruole e guanti di plastica il cui casuale smaltimento sta producendo danni enormi all’ambiente, come testimonia anche il noto geologo Mario Tozzi sulla rivista del Touring Club Italiano:

«Arrivano già le segnalazioni di quantitativi crescenti di mascherine e guanti in mare, dove diventano letali per tartarughe e pesci che li scambiano per cibo. […] Se anche solo l’1% delle mascherine venisse smaltito non correttamente (e alla fine disperso in natura), ciò significherebbe dieci milioni di mascherine al mese disperse nell’ambiente. […] Questa roba finirà nel Mediterraneo, dove ogni anno si riversano già 570 mila tonnellate di plastica. […] E c’è una contraddizione ambientale ancora più pesante. Ovviamente soffriamo per le 320mila vittime che Covid19 ha mietuto in tutto il mondo, ma non ci impressionano tanto i 4 milioni di morti in più , rispetto alle medie ‘normali’ che l’Oms segnala da tempo a proposito dell’inquinamento atmosferico; 80 mila solo in Italia, quando per il virus ne piangiamo, per ora, meno della metà. Il virus fa paura, l’inquinamento e la plastica inutile no»
(La rivincita della plastica, «Touring», luglio-agosto 2020, p. 22).

Le ondate di panico collettivo sono sempre molto pericolose e quella legata al Covid19 è particolarmente insidiosa anche per la sua dimensione planetaria, globale, dalle conseguenze ambientali assai gravi e intrisa di un asfissiante conformismo.

Studenti al bar ma non nelle aule

di Giuseppe Grasso e Alberto Giovanni Biuso
(12.6.2020)

Sulla mailing list dei docenti dell’Università di Catania si discute anche della decisione dell’Ateneo di continuare a interdire agli studenti l’accesso ai Dipartimenti.
Riportiamo uno scambio intercorso tra Giuseppe Grasso (Dipartimento di Scienze Chimiche) e Alberto Giovanni Biuso (Dipartimento di Scienze Umanistiche).
L’argomento è la Lettera aperta indirizzata al MUR e al Ministro Manfredi con la quale si chiede di riaprire le Università.

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Io ho firmato la petizione, ma vorrei anche aggiungere un piccolo commento. Mi sembra veramente vergognoso che sia possibile andare al bar, al ristorante e tra poco anche in discoteca e contemporaneamente si facciano problemi per fare esami in presenza (si possono tranquillamente mantenere le distanze durante gli esami) o per fare le lezioni in presenza (anche in questo caso è facile tenere il metro di distanza).

In effetti, mi pare che si stia semplicemente – e forse volutamente – privando del diritto allo studio migliaia di studenti, dalla scuola alle università. Il pericolo, a mio avviso, non è affatto rappresentato dal virus (senza togliere importanza e gravità alla morte di nessuno; qui in Sicilia ricordo che abbiamo avuto un numero di morti e di contagiati da Covid veramente ridicolo, se confrontato al numero di malati e morti per altre cause. Guardando ai numeri, personalmente mi sento molto più in pericolo fumando, bevendo alcolici o andando in moto piuttosto che parlando con uno studente a 2 metri di distanza).

Il vero rischio mi sembra quello di crescere una generazione di disumani-nerd-telematici, privi di ogni senso critico e perciò facilmente terrorizzabili con minacce di pandemia, così da poter instaurare una dittatura dall’oggi al domani, senza suscitare alcuna protesta. Io mi dissocio fortemente dal pensiero che prima di intraprendere una qualsiasi attività bisogna accertarsi a tutti i costi che sia a “rischio zero” dal contagio. Non so cosa si intenda per “rischio zero”. La vita è per definizione un “rischio”. Tutto quello che facciamo, ogni giorno, comporta un rischio per la nostra vita stessa. In effetti, non c’è neppure bisogno di uscire di casa, visto l’alto numero di incidenti, omicidi e suicidi che avvengono tra le nostre sicure mura di casa.

Perché ci siamo chiusi in casa allora e continuiamo a non poter vivere liberamente anche adesso che gli ospedali sono praticamente vuoti da malati di Covid? Si possono dare tante risposte a questa domanda, ma sicuramente tutti abbiamo percepito che il pericolo che avremmo corso svolgendo le attività della nostra vita ‘normale’ era improvvisamente divenuto troppo alto, che non si poteva più accettare il rischio di vivere, ma bisognava in qualche modo sospendere la nostra vita. Questa decisione, più o meno condivisibile, ci è stata imposta dall’alto, non è stata affatto il frutto di un dibattito politico e culturale – tutto è stato giustificato dall’urgenza.

Adesso, però, la questione mi pare ben diversa. L’urgenza (qui in Sicilia non l’abbiamo mai avuta) è finita, eppure si continua a proibire persino la vita culturale nelle nostre università. Si parla di plexiglas tra banchi di scuola elementare. Si prevedono lunghi periodi di didattica on line, scenari apocalittici, deleteri per la vita sociale, culturale ed economica del paese, giustificati non più dall’urgenza ma dalla sola paura. Ma preferisco vivere e far vivere piuttosto che rinunciare alla vita e alla cultura per paura di morire. Per quello che ne so, questa situazione potrebbe durare mesi, forse anni. Non sono disposto a rinunciare alla cultura e alla libertà per un periodo così lungo per nessuna minaccia di morte al mondo.

È chiaro che la libertà individuale si debba fermare nel momento in cui va a minacciare la libertà degli altri. D’altra parte la paura di morire personale non dovrebbe in alcun modo intaccare la libertà e la vita degli altri. Questo è stato fatto e continua ad accadere oggi, ma di certo deve essere limitato nel tempo, non può diventare, in nessun caso, una situazione permanente o ricorrente.

Giuseppe Grasso

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Condivido pienamente quanto scritto da Giuseppe Grasso. Aggiungo due elementi:

Il primo: un articolato documento di un gruppo di psicologi e psichiatri Sui gravi danni psichici e sociali della paura da Covid19, i cui autori si dichiarano in pieno accordo anche con il documento del Comitato Rodotà Si scrive salute. Si legge democrazia. Come abbiamo scritto in “Corpi e politica”: «crediamo che si tratti di un significativo contributo alla comprensione dei danni enormi inferti alla collettività, ai singoli, alle libertà. In modo pacato ma fermo si chiede ai decisori politici e ai mezzi di informazione di cambiare direzione allo scopo di evitare ulteriori disastri e ripristinare la salute pubblica, che è un fatto globale e non soltanto virale».

Il secondo: la foto di una gita a Siracusa che abbiamo organizzato qualche giorno fa con alcuni dottorandi, laureandi e studenti del Dipartimento di Scienze Umanistiche. L’immagine è stata da me tagliata per rispettare la riservatezza dei miei allievi ma vi assicuro che i corpi erano interi. L’abbiamo scattata davanti a una delle belle chiese di Ortigia. Abbiamo passeggiato, gustato l’aperitivo, cenato. E tuttavia quegli stessi dottorandi, laureandi e studenti devo riceverli al bar di Piazza Dante perché il Dipartimento è loro precluso, quasi come un fortilizio dal quale devono stare lontani.
Non vi sembra che ci sia qualcosa di strano e irrazionale in tutto questo?

Alberto Giovanni Biuso

[L’immagine di apertura è di Federico Fantechi]