Uno spazio per il tentativo di capire, pensare, opporsi al sabba dei controllori, delatori, millenaristi, profittatori, pastori di gregge e di tutta la varia umanità che sembra ubriacata dal vino andato a male del controllo totale. Il deperimento istituzionale si alimenta per inerzia e senza nemmeno che occorra la mano di un regista: banalità del male.
Infantilizzazione del pubblico e frastuono mediatico si avvitano reciprocamente nell’effetto palla di neve e impediscono qualsiasi serio inquadramento del problema epidemiologico, qualsiasi progetto strategico di piano sanitario, qualsiasi inchiesta sulle responsabilità pregresse e sui ritardi attuali. Si è condensata una psicologia collettiva da ultima spiaggia, disposta a sacrificare – e a sacrificare inutilmente – tutto sull’altare di un rito salvifico allucinatorio che promette di risparmiare solo l’esistenza cellulare degli adepti più osservanti e distanziati.
È bene che qualcuno dica apertamente e a voce alta che vogliamo vivere, non sopravvivere.
‘Io resto a casa’ poteva essere un appello alla responsabilità indirizzato alla coscienza libera di una cittadinanza adulta, in grado di fare scelte in laica autonomia; è diventato lo slogan di una classe politica inadeguata e di un coro mediatico osceno, usato per costruire la macchina di un pericoloso quanto sgangherato unanimismo acritico, che ha fuso i cervelli nel mix ossessivo di terrorismo ansiogeno a tempo pieno, proclami pseudoscientifici senza contradditorio e invenzione del capro espiatorio, di volta in volta identificato nel cinese da dieci anni in città, nel portatore sano e quindi subdolo, nel pedone isolato ma privo di bolla prefettizia, nel compratore seriale di acqua minerale.
In questa situazione, nessuna meraviglia suscita il rigurgito dei peggiori e più contraddittori luoghi comuni: “Gli italiani non sono maturi per la libertà, ci vuole la severità del bastone”, sentenziano gli stessi che però cantano giurando, dai balconi, di essere pronti alla morte per la Patria e si commuovono per il comune anelito all’immunità claustrale. ‘Io resto a casa’ significa così non un momentaneo comportamento responsabile ma il gesto dell’automatismo autoritario che oscura la visibilità sociale degli elementi, concretissimi, che eccedono il rifugio (o l’inferno) domestico: la relazione politica e il legame erotico, l’accrescimento civile e culturale (“Quel cibo che solum è mio”, diceva Machiavelli), la dinamica urbana, l’esplorazione di luoghi storici, il commercio umano, il confronto con la natura. L’interdetto a frequentare teatri, librerie, musei, sedi politiche, parchi, mercati, boschi e mari, persone amate e persino i propri morti non è minimamente oggetto di discussione e tanto meno di (impossibili?) interventi compensativi. Sembra che la chiusura riguardi solo i covi criminali dove si rassembra la genia dedita a peccaminosi aperitivi. Ma l’uscita di casa, il ‘fuori’ – lo spazio pubblico dal forum romano all’agorà rivendicato da Hannah Arendt come proprio dell’esercizio dell’umano – è costitutiva dello spazio pubblico, spazio mentale prima che fisico, dimensione estetica e concretamente sensoriale oltre che reale solidità architettonica, esperienza corporea e prolungamento intellettuale che distingue “l’animale da polis” rispetto alle bestie e agli dèi.
Tolto questo patrimonio storico e generativo si azzera la distinzione tra la nostra specie e quella di un microbo. Mette a disagio ricordare una cosa che dovrebbe essere ovvia. Ma la sparizione dello spazio pubblico, oggettivamente perpetrata dai decreti governativi con poche e burocratiche righe e senza significative reazioni, sottrae alla visibilità la parte più importante della nostra vita. Invisibili non sono dunque solo i senza tetto, ignorati al pari di tutte le altre categorie precarie, ma anche esigenze vitali di portata universale, che semplicemente non vengono viste e sono sottratte, direbbe Foucault, al regime di luce che si instaura con provvedimenti amministrativi di rango inferiore, senza neppure scomodare un Parlamento scappato a casa con un gesto che incarna il dileguarsi della politica. Le istituzioni sono commissariate di fatto da un avvocato non eletto da nessuno che emana in solitudine provvedimenti formalmente illegittimi e giuridicamente imprecisi e contradditori. Il vuoto è prontamente colmato dalla Scienza. Peccato che non esiste ’la Scienza’ ma una pluralità di impostazioni scientifiche in perenne tensione, specialisti con prospettive diversissime e scale valoriali divergenti che solo un dibattito pubblico razionale e una decisione politica responsabile possono comporre. In absentia, non emergono salvatori provvidenziali ma solo apprendisti stregoni fideisticamente convinti delle loro ipotesi e determinati a chiudere la discussione tecnica a colpi di denunce penali contro gli eretici di altre scuole.
Per la nostra specie, e per i corpi collettivi nei quali si organizza, vivere implica una serie di elementi ricchi, complessi, plurali. Fondamentale, necessario, condizione di ogni altro è l’elemento biologico. Da salvaguardare con tutti gli strumenti medici, politici, sociali che epoche e situazioni offrono. Ma non è sufficiente. Necessario, appunto, ma non sufficiente. Vivere significa anche scambio con i propri simili, relazione con lo sconosciuto, incontro dei corpi nello spaziotempo, nell’ambiente, nel mondo.
La vita è movimento, scoperta, autonomia. Vivere è non smarrire mai, e anzi moltiplicare, la dimensione simbolica, culturale, relazionale dello stare al mondo. Perché homo sapiens è naturacultura che agisce nello spazio e nel tempo. Non è un software astratto, formale, disincarnato. Se in situazioni di emergenza può essere necessario diminuire la potenza dell’incontro dei corpi, questo non può mai significare rinuncia alla vita umana che è, essenzialmente, vita politica, ricchezza simbolica fisica ed estetica dell’esistere. Ma è quanto sta accadendo ed è qui che abita il pericolo. La morte per l’uomo non è soltanto decesso dalla vita, è il dissolversi del mondo.
Ma proprio adesso che avvertiamo il disagio del pensare, è il momento di rovesciare la prospettiva, di non rassegnarsi in un atteggiamento difensivo: se non basta sopravvivere, non ci accontentiamo più neanche del ritorno alla vita troppo debole che non ci bastava prima dell’emergenza. La situazione insopportabile di prima ha prodotto la crisi che ci attraversa e non si tratta allora di restaurare lo stato di cose precedente.
I nostri sensi stanno registrando una mutazione del reale, uno spostamento del confine tra consistenza materiale della realtà e pervasività del virtuale, tra annuncio apocalittico e immobilità dello scenario metropolitano, tra iperconnettività e lontananza fisica, tra vertiginose impostazioni macroeconomiche e tentativi di perpetuazione del neoliberismo e della sua teologia, tra diverse ma concomitanti percezioni del tempo.
Stiamo, soprattutto, mettendo alla prova la nostra tenuta fisica, nervosa, mentale nella quale spariscono gli ultimi residui del dualismo cartesiano. Siamo messi di fronte al ‘paesaggio del corpo’. Diventa di nuovo attuale la domanda di Spinoza che Deleuze ha rilanciato: “Che cosa può un corpo?” Quali accrescimenti di potenza percettiva, emozionale e intellettuale sono raggiungibili nel varco che si apre? E, nella sua inedita costituzione in comune, dopo la dionisiaca separazione delle membra, cosa può un corpo politico?
I temi da cui iniziare:
- chiusura degli spazi pubblici, in primis i teatri, aggressione alla vita activa, e alla sua prima incarnazione: la ‘realtà aumentata’ che è il teatro, luogo che anticipa e verifica le svolte della vita individuale e ancor più collettiva;
- estensione problematica del principio di emergenza che giustifica ogni privazione della libertà (e in prospettiva – per esperienza storica – ogni sterminio) per questioni igienico-sanitarie; esiste un limite invalicabile?
- confusione tra la salute, intesa come pura integrità e assenza di contagi, e l’esercizio della pienezza della vita, che include, dall’Atene del V secolo in avanti, le funzioni civili e politiche;
- inneschi ansiogeni nella drammatizzazione degli annunci governativi martellati di sera, in narcisistica diretta;
- criminalizzazione dei cittadini che non stanno a casa, targati come ‘irresponsabili’, ‘incoscienti’, ‘furbetti del coronavirus’;
- pericolo (ora, ma soprattutto dal day after a seguire) di perpetrazione del crimine della riduzione delle libertà pubblica;
- pericolo (ora, ma soprattutto dal day after a seguire) di annientamento finale delle ‘nostre scuole’: assimilazione delle lezioni (e seminari e discussioni) a distanza a quelle in presenza.
primi promotori
Barbara Biscotti, storica del diritto, docente universitario
Alberto Giovanni Biuso, filosofo, docente universitario
Guido Cappelli, studioso del rinascimento, docente universitario
Maria Teresa Catena, filosofa, docente universitario
Monica Centanni, grecista, docente universitario
Giacomo Confortin, medievista, studente universitario
Valerio Eletti, studioso di reti e sistemi complessi
Pier Paolo Filippini, restauratore ligneo e teatrante
Francesco Furlan, filologo e storico, directeur de recherche C.N.R.S.
Anna Fressola, dottoranda in studi umanistici
Anna Ghiraldini, dottoranda in studi umanistici
Gianluca Giannini, filosofo, docente universitario
Maurizio Guerri, docente e ricercatore
Vittoria Magnoler, medievista, studente universitario
Nicolas Martino, docente e ricercatore
Peppe Nanni, filosofo della politica, avvocato
Luigino Pincini, insegnante
Alessandro Tonin, neuroingegnere, dottorando
Luca Tonin, ingegnere, ricercatore universitario
Alessandro Visca, giornalista
Nicolò Zanatta, esteta, precario