Sulle lezioni 2021

di Alberto Giovanni Biuso
(3.6.2021)

Ho concluso le lezioni dell’a.a. 2020/2021. Ringrazio gli studenti che con la loro presenza hanno reso i tre corsi che ho svolto vivaci, sensati, interattivi e possibili. Tali lezioni, infatti, hanno corso il rischio di non tenersi. E questo per le ragioni indicate in una lettera da me inviata il 23 dicembre 2020 sia al Rettore di Unict, Prof. Francesco Priolo, sia al Direttore del Dipartimento di Scienze Umanistiche, Prof.ssa Marina Paino. Riporto qui sotto parte della lettera inviata al Rettore. I brani omessi riguardano comunicazioni riservate.

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Caro Francesco,
[…]
Insieme all’augurio di una buona fine d’anno vorrei comunicarti qualcosa a proposito di ciò che tu e il DG ci avete scritto oggi, in particolare sul fatto che «la rinuncia più grande hanno dovuta patirla i nostri studenti».
Condivido questa affermazione, confermata da quanto uno studente mi ha scritto qualche giorno fa.

[Qui ho riportato una lettera che Corpi e politica ha già pubblicato: Un sorriso, un abbraccio]

Mi sembra una lettera dolente, saggia e drammatica.
Una lettera che dimostra essere la salute qualcosa di non riducibile alle sole dimensioni organiche, attingendo invece alle strutture psichiche, ambientali, relazionali.
Aver ignorato e continuare a ignorare la complessità della salute è una delle cause più gravi del malessere collettivo che si sta diffondendo. Aver limitato i comitati tecnici ai soli medici -sia da parte dei governi sia da parte delle università- è una clamorosa dimostrazione dei danni del riduzionismo. Avresti dovuto consultarti, caro Francesco, non soltanto con i medici di Unict ma anche con i sociologi, gli psicologi, i filosofi. Così, invece, sia l’amministrazione centrale, il Governo, sia le altre avete preso decisioni parziali, discutibili a volte sbagliate, pericolose e dannose.
Ho diffuso il testo di D. su vari canali e l’ho commentato sul mio sito: La grande reclusione.
Se leggerai questo mio intervento, vedrai con quanta difficoltà ho vissuto le ‘lezioni’ dello scorso a.a.
[…]
Ti comunico comunque sin da ora che non intendo ripetere l’esperienza dello scorso anno. Speriamo naturalmente di poter da qui a marzo rientrare nelle aule ma non ho intenzione di tornare a parlare come un alienato con un monitor. Se non vi sarà la possibilità di avere degli studenti in aula, anche pochi, io non farò lezione, anche a costo di provvedimenti disciplinari. Credo infatti che la mia SALUTE valga quanto quella degli altri -anche se non si tratta di Sars2- e non intendo metterla a repentaglio.
Aggiungo che per chi prende sul serio il proprio lavoro di insegnante (uso di proposito questa parola, invece che ‘professore’) un metodo didattico non vale l’altro. Come abbiamo scritto con Monica Centanni, «il docente ha altresì il diritto di rifiutarsi di svolgere le lezioni in modalità non compatibili con le linee etiche e deontologiche che definiscono la qualità del suo insegnamento» (Iuxta legem. Dei doveri e dei diritti dei docenti universitari in tempo di epidemia. Una guida, in Corpi e politica). 

Come sai, ritengo le modalità telematiche del tutto estranee al mio metodo didattico, direi pienamente in conflitto con esso.
E questo nonostante io scriva (un giorno sì e un giorno no) da 12 anni sul mio sito personale; sia il curatore di vari spazi telematici; abbia pubblicato un libro dedicato alla filosofia del computer (Cyborgsofia. Introduzione alla filosofia del computer) e stia connesso alla Rete 24 ore su 24. Proprio perché sono molto competente nel virtuale, ritengo la modalità digitale una negazione del fatto educativo.
Non posso venire meno alla mia identità di docente, anche per le ragioni di nuovo indicate da me e dalla collega Centanni: «È comunque dovere/diritto del docente attivare e promuovere, anche fra gli studenti, la consapevolezza critica che la scelta del canale ‘televisivo’ – e del metodo e della retorica connessi a quella modalità di comunicazione – si pone come modalità alternativa rispetto alla tradizione di una paideia positivamente consolidata da secoli in Italia e in Europa e, di fatto, incentiva l’assimilazione delle nostre università con le università telematiche parificate, che in Italia già proliferano in modo abnorme, grazie a scelte legislative scellerate».
Ti ringrazio per l’ascolto […]. Ti auguro di trascorrere insieme ai tuoi cari delle feste fatte di sguardi e di abbracci veri.
Alberto
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A conferma di quanto scritto in questa lettera, quando -a causa della positività al virus di uno studente- tutte le lezioni del corso di Scienze Filosofiche sono state spostate esclusivamente sulla piattaforma MSTeams, ho interrotto per due settimane le mie lezioni. Poi le abbiamo riprese e serenamente concluse, nello spaziotempo reale, nella vita dei corpimente, nella densità del fatto educativo come fatto socratico.

Una parola semplice sulla didattica del futuro

di Tommaso Greco
(Roars, 14.5.2021)

[Poche e chiare parole sulla didattica d’emergenza, del tutto condivisibili]

Credo sia venuto il momento, se non è già troppo tardi, di porsi e porre una domanda: cosa faremo, con la didattica a distanza quando sarà finito il periodo dell’emergenza sanitaria? Ribadisco, a scanso di equivoci: mi sto chiedendo cosa sarà normale quando non dovremo più fronteggiare il pericolo del coronavirus, sperando che non ce ne siano altri analoghi, o che non si debba vivere nell’emergenza perpetua come in certi film apocalittici con i quali abbiamo nutrito il nostro immaginario.

L’impressione — ma ovviamente è più di una impressione — è che sia ormai entrata nella convinzione diffusa l’idea che non si possa più fare a meno della possibilità di ‘trasmettere’ le nostre lezioni online, per chi voglia usufruire di queste modalità. I documenti di programmazione, le dichiarazioni di ministri e politici, gli impegni dei rettori e degli amministratori degli atenei vanno tutti in questa direzione (vi risparmio citazioni e rimandi). La Dad appare a tutti come una di quelle scoperte così magnifiche, una via che offre tante di quelle opportunità, che sarebbe stupido non approfittarne. La parola magica che mette tutti d’accordo è: “sistema misto”.

Vorrei dire allora una parola, con il massimo della semplicità e il massimo della chiarezza. Permettere che uno studente (lo dico una volta per tutte: o una studentessa) possa iscriversi ad una università rimanendosene a casa propria — perché non ha i mezzi per pagare l’affitto, perché è uno studente-lavoratore, perché è uno studente-genitore, perché non ha voglia di alzarsi presto la mattina per prendere il treno, perché preferisce seguire le lezioni standosene sdraiato sul divano o in pigiama sotto le coperte o perché quella mattina è brutto tempo — è frutto di un grande inganno e di una grande ipocrisia che noi come docenti (e mi auguro anche gli studenti) non possiamo permetterci di avallare e, se del caso, di non contrastare attivamente.

Su quanto l’esperienza universitaria sia una esperienza (appunto) che si può fare solo sperimentandola, per i mille motivi che sono stati detti in questi mesi, non mi soffermo. Vorrei solo ribadire che far credere, ad esempio, ad uno studente meridionale che possa iscriversi all’Università di Pisa rimanendosene fermo a casa sua è appunto un inganno, e io lo ripeterò ad ogni occasione: perché gli toglie la possibilità reale di cogliere tutte le opportunità che una università degna di questo nome offre (o dovrebbe offrire): spazi, biblioteche, incontri (soprattutto informali e imprevisti), che solo in presenza possono essere davvero fruiti. Esiste un solo docente, tra quelli attualmente in servizio, che possa negare quanto sia stato importante vivere l’Università per il proprio percorso? E allora perché negarlo ai docenti (ma anche ingegneri, insegnanti, biologi, ecc.) del futuro? Abbiamo idea di cosa stiamo rischiando di togliere ai nostri giovani?

Voi mi direte: ma perché impedirlo, se uno lo preferisce? E io rispondo, sempre semplicemente e direttamente. Nessuno vuole impedirlo: ci sono per questo le università telematiche. Costano troppo? Allora si crei una telematica pubblica, a prezzi accessibili per chiunque, e magari mandiamoci a insegnare anche tutti quei bravi colleghi che ormai amano alla follia insegnare dallo schermo di un computer. Ma le altre Università, per favore, rimangano quello che sono sempre state e che non potranno non essere, se vogliono continuare ad essere Università e non trasformarsi in una telematica qualsiasi.

Poiché volevo essere semplice, diretto e anche breve non mi dilungo su un’altra questione cruciale, che riguarda lo svolgimento di convegni, seminari e quant’altro: se anche su questo qualcuno pensa che “è così facile e comodo” (e anche economico) fare tutto attraverso le piattaforme telematiche, allora chiudiamo bottega e cambiamo nome alle Università. Evidentemente il loro tempo è finito.