Scuola e didattica a distanza: una riflessione

di Anna Angelucci
(da ROARS, 11.4.2020)

Il Decreto Scuola dell’8 Aprile mira ad assicurare attraverso la didattica a distanza lo svolgimento e la conclusione di questo anno scolastico funestato dal coronavirus e l’avvio ordinato del prossimo. Nella bozza si richiama il lavoro agile come cornice di riferimento normativo per inquadrare le attività a distanza dei docenti. Pur nell’eccezionalità di un momento che richiede soluzioni d’emergenza, una riflessione si impone: se il lavoro a distanza degli insegnanti con i loro studenti dovesse essere definitivamente incastonato nella cornice giuridica del lavoro agile allora avremmo compiuto l’ultimo passo verso l’aziendalizzazione non solo della scuola ma della stessa relazione educativa.

Una didattica a distanza ordinaria e normata come smart working, di cui, in questi giorni difficilissimi e straordinari, i “piazzisti dell’istruzione” vaticinano le sorti progressive costruendosi proficue rendite di posizione, se concepita come più produttiva e competitiva, dunque preferibile a quella in presenza, e resa interscambiabile e fungibile versus quella in presenza, diventerebbe esclusivamente funzionale al suo prodotto (l’esito degli apprendimenti?), magari misurato da un Invalsi sempre più computer based, finalmente senza le fastidiose scorie emotive e affettive del nostro imperfetto e soggettivo sentire, lavorare, imparare, vivere. Ma sarebbe una torsione pedagogica epocale, con effetti professionali e antropologici devastanti. Perché chiuderebbe davvero e in modo definitivo il circolo vizioso – ‘competenze’ – ‘apprendimento’ – ‘tecnologia digitale’ – nella dimensione univoca e alienante del ‘capitale umano’.

Nell’articolo 2, comma 3 del Decreto Legge che disciplina con misure urgenti la “regolare conclusione di questo anno scolastico e l’ordinato avvio del prossimo”, in relazione alla situazione straordinaria determinatasi con l’epidemia di Coronavirus, si legge quanto segue:

“In corrispondenza della sospensione delle attività didattiche in presenza a seguito dell’emergenza epidemiologica, il personale docente assicura comunque le prestazioni didattiche nelle modalità a distanza, utilizzando strumenti informatici o tecnologici a disposizione. Le prestazioni lavorative e gli adempimenti connessi dei dirigenti scolastici nonché del personale scolastico, come determinati dal quadro contrattuale e normativo vigente, fermo quanto stabilito al primo periodo e all’articolo 87 del decreto-legge 17 marzo 2020 n. 18, possono svolgersi nelle modalità del lavoro agile anche attraverso apparecchiature informatiche e collegamenti telefonici e telematici, per contenere ogni diffusione del contagio”.

Come è noto, attualmente in Italia il lavoro agile è definito giuridicamente, ex lege 81/2017, come una performance individuale, una prestazione lavorativa autogestita, una modalità di esecuzione a distanza con l’utilizzo di strumenti tecnologici del rapporto di lavoro subordinato pubblico o privato, mediante accordo tra le parti, “allo scopo di incrementare la competitività” (capo II, art. 18, c.1) dunque accrescere la produttività del lavoratore, per ottimizzare efficacia ed efficienza dei servizi erogati.

Nel decreto scuola appena emanato si richiama l’articolo 87 del DL 18/2020 che, in forza dell’emergenza epidemiologica, prescrive il lavoro agile come modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa” a prescindere dagli accordi individuali e dagli obblighi previsti dalla legge. Nella fattispecie, vanno in deroga proprio gli articoli 18-23 della legge che normano il lavoro agile, definendone limiti, condizioni, garanzie e tutele. Tutto questo, nella fase d’eccezione che stiamo vivendo, letteralmente salta. Per i lavoratori della scuola così come per tutti i lavoratori della pubblica amministrazione.

In nota all’art. 18 della stessa legge viene richiamato l’art. 14 della legge 124/2015 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche) che specifica che :

“L’adozione delle misure organizzative e il raggiungimento degli obiettivi costituiscono oggetto di valutazione nell’ambito dei percorsi di misurazione della performance organizzativa e individuale all’interno delle amministrazioni pubbliche. Le amministrazioni pubbliche adeguano altresì i propri sistemi di monitoraggio e controllo interno, individuando specifici indicatori per la verifica dell’impatto sull’efficacia e sull’efficienza dell’azione amministrativa, nonché sulla qualità dei servizi erogati e delle misure organizzative adottate”.

È perfettamente comprensibile che l’urgenza di definire, in questa situazione emergenziale, le modalità di conclusione dell’anno scolastico in corso e di avvio regolare del prossimo imponga l’omissione di molti passaggi giuridici e contrattuali, a partire dalla libera scelta del lavoratore in accordo col datore di lavoro di eseguire la prestazione lavorativa all’esterno, e dall’obbligatorietà della stipula per iscritto di quegli accordi, sia ai fini della loro regolarità amministrativa sia con riguardo alle forme di utilizzo del potere direttivo, di controllo e disciplinare del datore di lavoro ed agli strumenti utilizzati dal lavoratore.

Comprendiamo anche che con un decreto legge si intende normare in via eccezionale la situazione contingente, come è giusto che sia, affinché si assicuri il diritto allo studio dei giovani, la funzione docente degli insegnanti, l’organizzazione di tutte le attività didattiche e soprattutto una dignitosa conclusione dell’anno scolastico. Nell’efficacia dei modi, dei tempi e delle risorse che ciascun soggetto – come persona, come gruppo, come istituzione, come sistema – può e deve garantire. Ma nei limiti temporali di una situazione contingente che non può assolutamente configurare per la scuola, in prospettiva, nessun’ipotesi di lavoro alternativa futura.

La scuola è un ambiente di lavoro che ha una sua evidente specificità rispetto a qualunque altro. L’insegnamento, l’apprendimento, i processi di conoscenza sono strettamente legati alla relazione umana ‘incarnata’. Tutto questo non ha niente a che fare con la produttività aziendale e di servizio, che è il presupposto, il fondamento ontologico e giuridico della possibilità della prestazione di lavoro agile. Tutto il lessico che descrive il lavoro agile rimanda ad una concezione del lavoro che, per statuto, non appartiene alla scuola. Non sotto il profilo semantico, non sotto il profilo giuridico. Competitività, produttività, prestazione, performance: sono parole aziendali che nulla a che vedere con la funzione culturale e sociale della scuola e con l’unico linguaggio che la esprime. Il linguaggio della Costituzione, che le assegna un mandato culturale, sociale e politico altissimo.

La scuola non è un servizio – burocratico o impiegatizio o produttivo – che può essere dematerializzato. È l’istituzione più importante del nostro tessuto repubblicano, quello dove la Costituzione stessa si incarna. La scuola è il luogo fisico dove studenti e docenti si incontrano, si conoscono, si relazionano, si guardano, si parlano, si toccano e dove la straordinaria possibilità umana garantita dal dettato costituzionale di “essere di più”, nella reciprocità di uno scambio fecondo, diventa reale.

Il lavoro che si fa a scuola, il lavoro della scuola, non è lavoro agile, né potrà mai esserlo. È un lavoro faticoso e paziente, lungo e lento, difficile, impegnativo,da condursi in presenza, nell’incontro sensoriale e dialogico tra corpi, sguardi, mani, voci. Un lavoro non distanziabile perché non riducibile alla stregua immediata della misura dei suoi prodotti. È un lavoro profondamente incardinato nei processi educativi, nei percorsi comuni che possono essere efficaci solo se si realizzano insieme, uno accanto all’altro, ove si invera l’essenza ultima della funzione docente. Ed è un lavoro di relazione profonda, ‘incorporata’, perché al di là e oltre questa dimensione incarnata non c’è nessun insegnamento, nessun apprendimento che sia veramente significativo. Nessuna scuola è davvero possibile nella sola dimensione del virtuale. Una dimensione che, nel presente e nel futuro, non può che riprodurne faticosamente un inefficace simulacro, costituendosi, all’interno della relazione educativa, come un’inauspicabile eccezione.

Se il lavoro dei docenti dovesse essere definitivamente incastonato nella cornice giuridica del lavoro agile allora avremmo compiuto l’ultimo passo verso l’aziendalizzazione non solo della scuola ma della stessa relazione educativa che sostanzia ogni attività d’insegnamento e apprendimento. Una didattica a distanza ordinaria e normata come smart working, di cui in questi giorni difficilissimi e straordinari i “piazzisti dell’istruzione” vaticinano le meraviglie progressive costruendosi proficue rendite di posizione, se concepita come più produttiva e competitiva, dunque preferibile a quella in presenza, e resa interscambiabile e fungibile, diventerebbe esclusivamente funzionale al suo prodotto, magari misurato da un Invalsi sempre più computer based, finalmente senza le fastidiose scorie emotive e affettive del nostro imperfetto e soggettivo sentire, lavorare, imparare, vivere.

Ma sarebbe una torsione pedagogica epocale, con effetti professionali e antropologici devastanti. Perché chiuderebbe davvero e in modo definitivo il circolo vizioso – ‘competenze’ – ‘apprendimento’ – ‘tecnologia digitale’ – nella dimensione univoca e alienante del ‘capitale umano’.

Didattica e ologrammi

di Alberto Giovanni Biuso
(5.4.2020)

Lo scorso 30 marzo ho registrato soltanto 10 minuti delle mie lezioni telematiche per spiegare le ragioni per le quali continuerò a svolgere le lezioni in questa modalità senza però registrarle.

Il video si può trovare qui, liberamente visibile: Unict. Lezione di Filosofia teoretica. 30.3.2020.

In un mio testo di qualche anno fa scrivevo che «la vita trasformata in rappresentazione televisiva o digitale diventa reversibile nell’infinita ripetibilità dell’immagine, nel potere che l’icona possiede di fare di se stessa un presente senza intervallo, limite, fine» (Temporalità e Differenza, Olschki 2013, p. 18).

Gli umani si abituano a tutto. Abituandosi a sostituire le relazioni del mondo degli atomi con la finzione del mondo dei bit perderanno la loro stessa carne, il senso dei corpi, la sostanza delle relazioni. Non saranno più entità politiche ma ologrammi impauriti e vacui.

Disintossichiamoci. Sapere per il futuro


Lettera aperta al presidente del Consiglio prof. Giuseppe Conte, al ministro dell’università e della ricerca prof. Gaetano Manfredi, alla ministra dell’istruzione on. Lucia Azzolina (27 marzo 2020)

I promotori dell’appello: Valeria Pinto, Davide Borrelli, Maria Chiara Pievatolo, Federico Bertoni

Stiamo vivendo una situazione senza precedenti almeno dal secondo dopoguerra, che mette a rischio non solo la nostra salute personale ma anche l’assetto economico, giuridico e culturale della nostra forma di vita. Difficile, nella tragica emergenza di persone che muoiono e di ospedali che scoppiano, ragionare a mente lucida sulle cause, affrontare i mille problemi di ogni giorno e soprattutto tentare pronostici sul futuro, che appare incerto e minaccioso. Ma è proprio questa esperienza inaudita che ci spinge a tornare con forza sulle questioni sollevate dall’appello Disintossichiamoci. Sapere per il futuro*, ormai forte del consenso di circa 1400 firmatari, che tra le diverse azioni in programma vede l’organizzazione di un controvertice in occasione della 2020 EHEA Ministerial Conference, snodo del programmatico monitoraggio del Processo di Bologna, prevista per il 23-25 giugno a Roma e rinviata al 18-20 novembre a causa dell’emergenza sanitaria.

In queste settimane l’insostenibilità delle politiche europee di stampo neoliberale si è imposta in maniera drammatica. Decenni di tagli finanziari, privatizzazioni rapaci, attacchi convergenti ai beni comuni hanno reso ancora più difficili le ore che stiamo vivendo. Solo sforzi mai visti del personale sanitario hanno limitato i danni di un miope, sistematico e capillare definanziamento della sanità pubblica, parallelo a quello di altri settori altrettanto vitali per lo sviluppo civile e democratico del Paese: istruzione, università e ricerca. Si pensi solo alla carenza di medici dovuta alla scelta di imporre (e a quanto pare di conservare: http://www.andu-universita.it/2020/03/17/abolizione/) il numezro chiuso a medicina, invece di adeguare il numero dei docenti a un’esigenza evidentemente cruciale. Oggi più che mai serve un drastico mutamento di rotta.

“Niente sarà più come prima”, ripetono tante voci in questi giorni, con una formula ormai triturata dalla grande macchina del senso comune. Ma tutto dipenderà dalla direzione in cui ci muoveremo. Se non avremo la forza di aprire subito una fase radicalmente nuova, mettendo in discussione i dogmi, le strategie e le narrazioni egemoni del nostro tempo, i danni di una politica che assoggetta la conoscenza all’economia rischiano di diventare irreversibili. Con un paradosso solo apparente, la trasformazione della conoscenza in asset produttivo, nel quadro dell’”economia più competitiva e dinamica al mondo” (così la strategia di Lisbona, poi Europe 2020), ha finito infatti per svilire la conoscenza stessa, asservita a logiche concorrenziali e all’unica razionalità riconosciuta come tale: il mercato. Lo attesta la convergenza tra vertici accademici e industriali (determinante in Europa il peso della European Roundtable of Industrialists, ma esemplari da noi i vari protocolli d’intesa Crui-Confindustria, Cnr-Confindustria ecc.) e più in generale un assetto ideologico che ha distrutto le logiche interne ai vari saperi, l’uso pubblico della ragione che è proprio della scienza e l’idea stessa di comunità di pari, legittimando una «alleanza oligarchica tra scienza e ricchezza» (Rancière 2005) che spezza il patto fiduciario tra cittadini e conoscenza. È questo patto che oggi dobbiamo ricostruire. Ne va della tenuta democratica di un intero Paese, minacciata non solo dalle cosiddette democrazie illiberali ma anche da forme più subdole e capillari di erosione dei diritti e di controllo della conoscenza, nel quadro del cosiddetto capitalismo della sorveglianza.

Oggi, in un mondo che sta rivelando la sua drammatica fragilità, si levano forti le voci per un’inversione radicale delle strategie economiche, fuori dalla stretta delle politiche di bilancio europee e per un nuovo welfare universalistico, con un investimento pubblico che garantisca la tenuta del sistema, a vantaggio del bene comune. Non mancano però vari segnali preoccupanti, che l’emergenza in corso rende ancora più evidenti:

1. Nell’orizzonte autoreferenziale del governo dell’università, lascia sgomenti l’ottusa cecità con cui si manda avanti un’impresa controversa e dispendiosa come la nuova Vqr: scelta sensata solo per chi crede fideisticamente alla valutazione come a «un valore in sé», o, ancor peggio, si adegua alla superfetazione di un ordinamento amministrativo (così in una recente intervista il presidente dell’Anvur) che viola sistematicamente sia la libertà dell’arte, della scienza e dell’insegnamento, sia la riserva di legge prevista dall’articolo 33 della Costituzione, per cui appunto, con buona pace della responsabilità e della sua etica, fiat justitia etsi pereat mundus.

2. In questi giorni preoccupa anche l’opportunismo – e a tratti il cinismo – con cui vertici istituzionali e portatori di interessi prendono posizione sulla didattica a distanza, che docenti di ogni ordine e grado stanno praticando con straordinaria generosità, dedizione e competenza, nel tentativo di garantire agli studenti il diritto al sapere sancito dalla Costituzione. Il rischio è che una prassi imposta da ragioni di forza maggiore venga giudicata con ingenuo entusiasmo o, peggio, trasformata in una sorta di sperimentazione forzata, dietro la quale traspaiono finalità del tutto estrinseche ai diritti degli studenti e alle funzioni didattiche dei docenti. Da un lato l’acritica celebrazione di pratiche e tecnologie «innovative», dall’altro l’ennesima valorizzazione in termini economici di beni comuni come la scienza e l’istruzione. È facile prevedere, infatti, che la didattica a distanza possa diventare il nuovo business di quelle corporation tecnocratiche che sono ormai le nostre università, magari con un doppio canale che scaverà ulteriormente il solco delle diseguaglianze sociali: da un lato lezioni in presenza riservate a studenti privilegiati, in grado di pagarsi un corso fuori sede, dall’altro corsi online destinati a studenti confinati dietro uno schermo, che pagano ugualmente le tasse ma che non gravano su strutture e costi di gestione, con tutti i limiti di un apprendimento di bassa qualità evidenziati anche a livello internazionale (https://www.universityworldnews.com/post.php?story=20190207110446568).

Ancora una volta, peraltro, i costi dell’operazione verrebbero scaricati soprattutto sul personale universitario, costretto a improvvisare competenze e a svolgere mansioni che comportano un notevole aggravio in termini di tempo lavorativo, come tanti docenti stanno sperimentando in questi giorni. Se insomma le risorse tecnologiche vanno accolte con sguardo laico e flessibilità operativa, senza alcuna chiusura pregiudiziale, è ovvio che la teledidattica, utilissima in condizioni di emergenza, non potrà né dovrà sostituire l’insegnamento basato sull’interazione faccia a faccia e l’idea stessa di universitas in quanto luogo fisico e umano, luogo politico di incontro, dialogo e anche conflitto, dove soggetti in carne e ossa non si limitano a trasferire competenze ma mettono a confronto idee, modelli di sapere e visioni del mondo.

3. D’altra parte, gli improvvidi entusiasmi (o gli occhiuti calcoli) sulla didattica a distanza nascondono il fatto che molti di questi insegnamenti, salvo eccezioni (https://poliflash.polito.it/in_ateneo/il_politecnico_digitale_al_via_con_successo_la_didattica_online), sono affidati a sistemi proprietari in mano a multinazionali come Google e Microsoft e a datacenter esteri, con una leggerezza forse giustificabile per l’urgenza ma comunque preoccupante, non solo perché la funzione didattica, come quella giudiziaria (http://server-nexa.polito.it/pipermail/nexa/2020-March/017007.html), maneggia dati sensibili, ma soprattutto perché chi possiede i nostri dati e costruisce il nostro ambiente di lavoro ha anche il potere di determinare le nostre scelte (si veda, a proposito di oligopolisti ben meno potenti di Google e Microsoft, un’analisi di SPARC, Scholarly Publishing and Academic Resources Coalition: https://sparcopen.org/our-work/landscape-analysis/). È una questione cruciale che investe tutto il mondo della scienza e della ricerca. Si dice che la valutazione di Stato sia un modo per giustificare la spesa pubblica agli occhi del contribuente, come se il contribuente avesse bisogno di inaffidabili e oscure classifiche basate su costosi dati proprietari in mano a oligopolisti dell’editoria in conflitto di interessi (Scopus di Elsevier) o a fondi di investimento e banche d’affari (Clarivate Analytics, meglio nota come ISI). Perfino l’autoritaria Cina ha preso atto che la valutazione di Stato, fondata sul Journal Impact Factor smerciato dall’ex ISI, favoriva gli interessi di ricerca del mondo anglosassone e rallentava la diffusione del sapere in tempi in cui la sua pubblicità è più urgente che mai (https://twitter.com/Alea_LdSR/status/1231872684654551040). Nel frattempo, per l’emergenza Covid-19, si moltiplicano gli appelli a rendere la letteratura scientifica accessibile (si veda solo la dichiarazione della International Coalition of Library Consortia, firmata, in Italia, dal professor Stefano Ruffo, coordinatore della Commissione Biblioteche della CRUI: https://icolc.net/statement/statement-global-covid-19-pandemic-and-its-impact-library-services-and-resources). È questa dunque l’occasione per riflettere sulla sanità di un modello di «pubblicazione» mercantile che privatizza i nostri testi, rendendone la lettura sproporzionatamente costosa, e sull’ipocrisia di aprirli solo in occasione di epidemie che colpiscono anche la parte ricca del mondo (https://punctumbooks.pubpub.org/pub/viral-open-access-global-pandemic-covid-19-corona/branch/1). La via costituzionale per pagare il nostro debito verso il contribuente è infatti molto semplice: non togliere, ma dare più libertà ai ricercatori; e dunque rendere accessibile a tutti il nostro lavoro. In Senato, presso la commissione 7, è arenata una proposta di legge firmata dal deputato Gallo che riconosce agli autori scientifici italiani, sia pure con alcuni limiti, il diritto, paragonabile a quello già goduto dai ricercatori francesi, tedeschi, belgi e olandesi, di mettere gratuitamente a disposizione del pubblico il loro lavoro anche edito, trascorso un periodo di tempo non superiore a un anno.

Alla luce di tutto questo, in forza del consenso ricevuto da tanti colleghi, come promotori dell’appello Disintossichiamoci. Sapere per il futuro rivolgiamo queste richieste al Presidente Conte, al Ministro Manfredi e a tutti i vertici istituzionali del comparto università e ricerca:

1. Sospendere immediatamente – come si sta facendo in Francia e in Gran Bretagna per gli analoghi esercizi – la procedura della Vqr, che nelle condizioni attuali, con tante università chiuse, il personale isolato e anche le amministrazioni ormai dislocate in telelavoro, comporterebbe un insensato dispendio organizzativo e un aggravio insostenibile per docenti e tecnici-amministrativi, impegnati su tutti i fronti per garantire comunque il funzionamento dell’università;

2. Considerare la didattica a distanza un’opzione del tutto eccezionale per far fronte all’emergenza in corso, che si potrà sfruttare per migliorare la qualità dell’insegnamento ma senza forzature o frettolose fughe in avanti. In questi giorni molti interventi su giornali, blog o riviste online testimoniano un grande interesse per la questione, che non dovrà essere affrontata con le soluzioni opache e verticistiche a cui purtroppo ci siamo abituati ma con un coinvolgimento ampio e partecipato di tutta la comunità universitaria, vista nella sua complessità, eterogeneità e compresenza di prospettive diverse, che devono essere raccolte e valorizzate. Sottolineare certi rischi non significa rifiutare con piglio apocalittico l’innovazione tecnologica ma subordinarla alle priorità inderogabili della didattica: dunque utilizzarla con profitto, sensibilità e intelligenza ma in forma rigorosamente sussidiaria rispetto all’insegnamento in presenza, che deve rimanere la norma e non diventare un privilegio.

3. Allineare l’Italia alle pratiche di scienza aperta già presenti in Europa e nei principali Paesi europei, e dunque nell’immediato: a) Approvare senza ulteriori indugi la proposta di legge Gallo, a dispetto dei suoi limiti, con il proposito di estenderla alle monografie finanziate con fondi pubblici e di riconoscere all’autore la libertà di sottoporre il testo a licenze copyleft; b) Promuovere e finanziare lo sviluppo di piattaforme teledidattiche basate su software libero, sullo sviluppo di competenze informatiche locali e sulla custodia attenta dei dati di studenti e docenti.
Convinti della bontà di queste istanze, ribadiamo con forza la nostra idea di un’università pubblica, aperta e plurale, di una scienza libera fondata sull’uso pubblico della ragione e di una società che garantisca pienamente, di diritto e di fatto, il rispetto degli articoli 33 e 34 della nostra Costituzione.

È possibile aderire scrivendo a sapereperilfuturo@gmail.com con l’indicazione dell’istituzione di appartenenza

Teledidattica al Politecnico di Milano: “Tutto prosegue per il meglio. Rimanete nelle vostre celle”

da Fitzcarraldo*

Tutti i giorni alle ore 21 arriva una mail dal Magnifico Rettore del Politecnico di Milano: ci aggiorna su come procedono i lavori di digitalizzazione delle lezioni, dei laboratori e di tutti i processi, senza perdere naturalmente l’occasione di elogiarsi per come sono stati bravi a far fronte a questa emergenza. Da bravi ingegneri hanno applicato il loro metodo e sono riusciti a risolvere il problema: ora tutti i corsi sono fruibili online, si può andare avanti come se nulla fosse cambiato. Mail insipide, prive di una qualsiasi analisi critica di questa fase di radicale cambiamento delle dinamiche della nostra vita, prive di inviti a riflettere e ad utilizzare questi momenti ricchi di energia per immaginare nuovi mondi: niente. Questo è ulteriore conseguenza del compito che in questo momento si prefigge un ateneo scientifico-tecnologico, vale a dire: formare degli impiegati eccellenti nei loro specifici ambiti, ma del tutto estranei alla realtà che li circonda; l’importante è che trovino soluzioni ai problemi che gli vengono posti, senza farsi troppe domande e nella maggior parte dei casi, assoldati unicamente per seguire gli interessi di altri. In altre parole formare degli strumenti che facilitino l’utilizzo della tecnica che questi sanno padroneggiare.

I rapporti giornalieri continuano ad arrivare: il mondo Politecnico sembra funzionare alla grande, almeno questo è quello che traspare da quelle asettiche mail.  Forse pensano che si possano fare analisi solo a posteriori, oppure no – in ogni caso non vorrei addentrarmi nell’analisi dei loro calcoli. Intanto le giornate degli studenti sono un susseguirsi ininterrotto di lezioni davanti ad uno schermo che li assorbe privandoli di ogni cognizione spazio-temporale. Questa è solo una delle numerose implicazioni derivanti dalla didattica digitale, le avranno prese in considerazione?

Il 22 marzo, a distanza di un mese dall’inizio dei nostri domiciliari, la solita mail sembra finalmente offrire un’analisi del mondo esterno al Politecnico. Impressione che viene subito smentita nelle righe successive. Si legge infatti :

“[…] Un punto che vorrei chiarire riguarda le residenze che rimangono aperte e disponibili per i nostri studenti. A loro però chiediamo lo sforzo di rimanere nelle proprie camere il maggior tempo possibile e evitare assembramenti negli spazi comuni e nelle cucine. Eventuali violazioni saranno sanzionate con grande severità […]” .

Ecco l’unico invito: chiudersi nelle proprie celle. Un nuovo Medioevo – tante celle, tanti monaci. E che possibilmente non capiscano quello che trascrivono. Un ulteriore danno alle condizioni già precarie, da tutti i punti di vista, in cui ci troviamo noi studenti. Ma questo non sembra essere un loro problema, sono solo degli effetti collaterali trascurabili. Ora la loro preoccupazione è continuare la produzione per soddisfare la domanda del mondo del lavoro, con offerta preferibilmente smart.

Il problema è stato risolto, l’impianto continua a funzionare e, in un modo o in un altro, si continua a sfornare capitale umano.

*Fitzcarraldo, studente universitario

Teledidattica. “E perché non continuare sempre così?”

 di Tomaso Montanari

Chiudere all’improvviso le scuole e le università è stato uno choc. Il primo istinto è stato superare il trauma continuando le lezioni a distanza: in qualunque modo, pur di mandare un segnale di vita. Per sottolineare questo significato, molte istituzioni (come la mia Università per Stranieri di Siena) hanno promosso lezioni aperte a tutti, trasmesse sui canali youtube: e le grandi aule vuote dove il professore parla alle telecamere sono simbolo eloquente di una situazione che fino a ieri non avremmo mai pensato di dover vivere.

Con il passare delle settimane, tuttavia, appaiono sempre più chiari i limiti e i rischi della didattica a distanza: è urgente l’avvio di una riflessione, che in buona parte vale sia per la scuola che per l’università.

Le criticità più ovvie sono quelle relative all’inadeguatezza tecnologica del sistema dell’istruzione. La moltiplicazione delle piattaforme di ogni tipo, il volenteroso quanto caotico fai-da-te di molti docenti, la mancanza di coordinamento e preparazione ha gettato nel panico le giornate, già tese, di docenti, allievi e genitori in tutta Italia. Ma si tratta di carenze che possono essere sanate, se non nel cuore dell’emergenza almeno in un futuro prossimo, con investimenti adeguati in termini di tecnologia e di preparazione ad usarla.

Forse meno evidenti, ma più serie e certo meno risolvibili, sono le criticità sociali che vanno emergendo. Tra le sue funzioni più importanti, la scuola ha quella di rendere eguali ragazzi mai come oggi invece diseguali: per questo, più la modalità di apprendimento si sbilancia verso il tempo a casa (con cumuli di compiti, per esempio), meno la scuola fa il suo dovere costituzionale. Facile immaginare cosa succeda quando si è costretti a spostare tutto a casa. Succede che ci sono famiglie senza una rete decente, famiglie che non possono assicurare un tablet o un pc a figlio (specie se i genitori lavorano a distanza, come ora accade spessissimo), che non possono stampare schede e esercizi. O case che non possono garantire ai ragazzi uno spazio che assomigli, almeno di lontano a quello, libero e indipendente dal resto della famiglia, della scuola. E poi ci sono genitori che aiutano i figli più piccoli a consultare registri, scaricare schede e caricare compiti: ma ci sono anche quelli che non possono, non sanno o non vogliono farlo. Insomma, la didattica a distanza fa parti eguali tra chi è diseguale, e questa – come ha scritto don Milani – è la più grande delle ingiustizie.

Oltre tutto questo, c’è poi un problema più profondo, e un rischio più grande, che riguarda tutti i gradi dell’istruzione, ma è più tangibile via via che si sale verso l’università. Ed è la tentazione di pensare che in fondo la didattica online sia del tutto equivalente a quella vera, e che anzi sia preferibile. L’affermazione delle università telematiche (che ho sempre considerato un’aberrazione, una contraddizione in termini: come musei solo virtuali, sesso solo on line, cucina solo in tv…) sta di fronte a noi come un monito: non è che dopo il coronavirus si alzerà qualcuno a dire: “Perché non continuiamo sempre così?” Non sembri una paranoia da recluso: in molti dipartimenti (quelli a più alta densità di professori che esercitano una professione, come per esempio i giuristi) la spinta c’è da molto tempo, ed è sulla didattica a distanza che vengono istradate molte risorse premiali.

Ed è un errore, grave. Perché la scuola e l’università sono comunità: e hanno senso solo se lo rimangono, e non si riducono a somme di solitudini. La loro funzione non è rovesciare contenuti nella testa di uno studente (magari usando lo schermo del tablet come un imbuto), non è preparare ad una professione né rilasciare un titolo né valutare gli studenti: ma è quella di insegnare il pensiero critico. E dunque in un momento in cui ogni famiglia italiana è necessariamente, quanto istericamente, connessa alla rete (per informarsi, per distrarsi con serie e film, per comunicare con amici e parenti…), la scuola e l’università forse farebbero meglio a scegliere la strada della decompressione tecnologica e della liberazione mentale. Liberare dalla gabbia della individualità, invece che contribuire a consolidarla.

Il mio amico Guido, monaco di Bose, ha lodato su twitter la saggezza di una bambina di 9 anni che ha detto ai genitori: “Perché invece di vedere la messa in tv non leggiamo la Bibbia?”. Ecco: noi professori delle scuole e dell’università, invece di tenere connessi per ore i nostri allievi, avremmo potuto prescrivere loro un libro al mese per ogni materia (ordinabili via web: e non necessariamente da Amazon, ma anche dalle eroiche librerie reali connesse al portale Abebooks, per esempio), chiedendo di leggerli e poi di scrivere (in un tempo ragionevole) delle recensioni articolate, che noi avremmo corretto e rispedito. Sarebbe stato (e può ancora essere) un modo diverso di essere comunità, seppure a distanza: senza prenderci in giro su tecnologie inesistenti, senza metterci ancora più in tensione, senza mimare efficientismi aziendali. E anzi insegnando la cosa più preziosa: che anche mentre fuori tutto sembra crollare, i libri rimangono lo strumento più potente per stare in dialogo e per far presa sulla realtà. Per non smarrirci, e per rimanere vigili e critici sul mondo: in attesa di tornare ad incontrarci in corpo e anima, condizione indispensabile per ogni scuola che voglia essere umana.


L’articolo è stato pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 23.3.2020

 

appunti sulla teledidattica 1

di Monica Centanni
(22.3.2020)

Premessa

Premetto che, a differenza di tanti colleghi che, per misoneismo o semplicemente per accidia, hanno un atteggiamento negativo nei confronti della evoluzione tecnologica in atto, io credo fermamente che questa del nostro tempo sia una rivoluzione mirabile, paragonabile al passaggio arcaico oralità/scrittura o a quello rinascimentale manoscritto/stampa. Credo che siamo fortunati a vivere in quest’epoca, e sono entusiasta per le immense possibilità che la rete garantisce allo studio (imparagonabile quanto e come possiamo studiare oggi rispetto a soli 20 anni fa), essenziale per l’arricchimento della stessa didattica. In sintesi, a mio giudizio prima del web, studiavamo meno e peggio e insegnavamo meno e peggio. Parafrasando Giorgio Pasquali che affermava che prima del ricorso alle riproduzioni fotografiche dei manoscritti non si può parlare di edizioni critiche, ritengo che prima della possibilità di accesso alle risorse in rete non solo non si possa parlare di ‘edizione critica’ in senso tecnico (su questo si potrebbe fare una bella riflessione teorica) ma non potevamo neppure, seriamente, studiare. Per altro, ribadisco che il motivo per cui non sono sospettabile di misoneismo è il fatto che ho un bel ‘titolo’ tecnologico di cui posso fregiarmi (e mi concedo questo moto di orgoglio perché non è un lavoro mio, ma uno splendido lavoro collettivo): sono direttore di Engramma www.engramma.it, che è la più antica rivista di studi umanistici al mondo fatta e pensata per il web, tutta accessibile open access, dal protowebstorico anno 2000, fino a oggi.

Tanto valga come premessa.

In particolare

Dalla mia esperienza venticinquennale di insegnamento, ho imparato che ogni corso va calibrato di anno in anno, tarato sulla composizione della classe, che cambia sia perché, come si sa, gli studenti vanno ‘ad annate’ come il vino (e certi anni sono ottimi, certi altri meno), sia perché il corso stesso, per sua natura, richiede pazienza, capacità di ascolto dei profili e soprattutto dei desideri che gli studenti hanno rispetto all’antico. Come credo capiti a molti di noi, a ogni lezione arrivo con un bel po’ di appunti e con un PowerPoint pronto, ma il più delle volte in classe la lezione prende un’altra piega, perché c’è la domanda inattesa, c’è lo sguardo di quello studente in terza fila che mi fa pensare che forse sto dando per scontate troppe cose, c’è il brillare degli occhi di quella studentessa, così bella, in prima fila che mi suggerisce che un’idea, una frase buttata là di passaggio merita una digressione. Se sciorino la lezione che ho diligentemente preparato, annoio prima di tutti me stessa (credo che tre o quattro volte in vita mi sia capitato in tanti anni di lezione e ancora me ne ricordo con un po’ di vergogna). Il fatto è che vado in classe non a insegnare ma a imparare cosa e come, di quel che so, va ‘insegnato’; cosa e come posso spiegare, cosa vale e cosa no di quel che sto studiando e come posso comunicarlo. Solo a queste condizioni – praticando questo ascolto – credo si eccita, e poi si coltiva, la passione per i temi del mondo antico e insieme si affina il rigore che la ‘filologia’ dell’antico richiede.

Sul piano generale

Dato che ‘professiamo’ il mestiere intellettuale e che il nostro compito è anche quello di considerare criticamente le situazioni in cui ci troviamo ad agire, non è eludibile una riserva generale su questa corsa alla telematizzazione dell’Università (e di tante altre attività culturali e performative).

Purtroppo, ben sappiamo che le situazioni di emergenza – anche quando serissime e fondate come questa – sono contingenze pericolose perché preludono ad accelerazioni e derive non sempre controllate e controllabili. Mi pare nello specifico molto pericoloso (ora, ma soprattutto a partire dal day after e a seguire) il non detto che striscia dietro alla teledidattica: l’assimilazione delle lezioni –  e dei seminari e delle discussioni – a distanza a quelle in presenza; l’idea che tutto si possa fare a distanza e il – conseguente e inevitabile – annientamento dello spazio pubblico per eccellenza che in Occidente è l’università, sono i teatri e in  generale i luoghi della vita activa del cittadino. Dopo anni di attacchi – per strategia, ignoranza o noncuranza – alle nostre   istituzioni e alle attività culturali nel nostro paese, che hanno fatto passare silenziosamente il messaggio che la cultura e l’istruzione siano un orpello di lusso, non il servizio essenziale che la res publica deve offrire, questo potrebbe essere l’ultimo colpo all’ “avvenire delle nostre scuole”.

Su questo dobbiamo stare all’erta: perché la “salute” del cittadino non è la mera (e patentemente impossibile) immunitas, ma la fiducia nelle istituzioni e nelle strutture (ché è questa che ci manca e innesca ansie e paure), la qualità della vita pubblica, la decisione – tutta intellettuale e politica – su quali siano i ‘beni di prima necessità’. Tra questi la convivenza, la vita pubblica, l’università vissuta come luogo di incontro e di cambio fisico, estetico prima che intellettuale, di saperi e di esperienze, è l’aria stessa di cui l’“animale da polis” non può fare a meno. Pena l’asfissia di cui si muore, in vari modi anche concreti, tanto quanto della polmonite virale.

Didattica on line e università azienda

di Vittoria Magnoler
(20.3.2020)

Mi ha attraversata un pensiero molto semplice: in Africa, in deliri coloniali, gli occidentali costruiscono pozzi, ospedali e scuole. Scuole, appunto. La scuola dunque rientra tra i diritti e i beni fondamentali di una civiltà che si professi progredita. La scuola si costruisce materialmente perché deve essere un luogo fisico, deve inserire in un contesto, deve essere un posto sicuro; non solo, perché dal principio è anche quel luogo in cui la maestra/il maestro si accorge se l’allievo/a ha problemi di vista, se ha dei comportamenti dovuti a disagi familiari ecc. La scuola è la sede dell’educazione: non vi alberga il puro nozionismo. È il luogo in cui si impara, si testa e si elabora il linguaggio: della parola, del corpo, dello stare al mondo, dello stare insieme ad altri. Il linguaggio dell’uomo che non si può trasmettere né applicare online, in un luogo fittizio, bidimensionale e di fatto inesistente.

Pensare di affrontare delle lezioni, un esame, la maturità, la laurea online mi sembra prendere in giro lo studente, l’insegnante, la materia di cui si parla, il sapere. Una presa in giro effettiva dato che lo strumento base dello studente, cioè il libro, è attualmente inaccessibile poiché segregato nella propria casa, proprio come lo studente e il docente. Una presa in giro che temo si possa perpetrare, sino al considerare la lezione online come sostituta della lezione in presenza, dato il precedente dell’esperienza che oggi si sta creando con la tele-didattica.

Questo tempo di quarantena dovrebbe essere colto come uno spazio utile allo studente universitario (che, si ricordi, non è inserito nel sistema della scuola dell’obbligo). Un momento in cui ci si possa concentrare maggiormente su personali interessi di studio, in cui si possa approfondire un argomento accantonato a causa del veloce susseguirsi delle 30h di lezione, in cui leggere ciò che non si ha mai tempo di leggere, in cui riflettere sul proprio tempo (perché sono “tempi interessanti”), in cui riflettere su uno Stato che dichiara lo stato di eccezione e dissemina le strade di forze armate. Questo è lo spazio che l’università dovrebbe lasciar sfruttare a chi si prefissa di laureare, ai cittadini del futuro che dovranno affrontare “il giorno dopo” e ricostruirlo con nuovi schemi.

Dunque, da studentessa, trovo che oggi emerga lampante il carattere aziendale dell’università espresso nella forma della didattica online. Il vanto degli atenei rispetto alla tele-didattica dimostra quanto l’obiettivo dell’organo non sia più quello di creare teste pensanti ma di progredire continuando a soddisfare la domanda dell’utenza, ossia la nostra, cioè di fornire un prodotto al cliente, qualsiasi sia il contesto in cui si trova a vivere – persino nel blocco generale causato dalla pandemia. Quindi ci si dovrebbe domandare anche cosa stiamo chiedendo noi, come clienti. Data la situazione, io credo che l’università avrebbe dovuto congelarsi e rinviare qualsiasi attività, lezioni ed esami compresi – ad esempio come si può pretendere di costruire rapporti con un potenziale relatore o di elaborare pensieri critici, domande, ipotesi in questo vagheggio?

Invece l’io dello studente squattrinato che vuol costruirsi un futuro è obbligato ad un adeguamento amaro, a regole nuove che assimilano il nostro ateneo ad una università telematica, cioè ad una forma che non abbiamo scelto iscrivendoci a questa università. Un io oppresso da quell’idea che aleggia nell’aria e che è traducibile con un “comunque stiamo andando avanti”. In realtà è tutta una grande illusione che si perpetra attraverso il medesimo, unico sistema fallito che oggi implode miseramente – estendendo la visione, suppongo, accadrà anche al meccanismo altrettanto meschino dell’università-azienda che ancora pare non accorgersene.

 

Videodidattica e libertà

di Alejandro Nanni
(13.3.2020)
 
Vorrei esprimere la mia visione in quanto studente che frequenta l’ultimo anno di Liceo Classico e che sta frequentando queste cosiddette videolezioni.

Ogni mattina mi alzo per fare lezioni di quaranta minuti ciascuna, dove l’interazione tra persone è portata al minimo, se non assente. Temo infatti che purtroppo potrebbe rappresentare in futuro parte importante di come verrà portata avanti la didattica in Italia e nel resto del mondo.  Non è stata nemmeno presa una decisione collegiale su come svolgere questa pseudo didattica e ogni professore fa come vuole, assegnando carichi di lavoro più o meno ingenti ,da svolgere autonomamente, agli studenti.
Personalmente comprendo la situazione negli ospedali e questa fatica degli infermieri di cui si parla tanto. Sono convinto però che per questo virus ogni cittadino abbia il diritto di scegliere come e se prendere precauzioni, senza questi blocchi militari sotto le nostre case e tra le nostre vie che sono contro ogni valore della cosiddetta democrazia. Ognuno quindi dovrebbe decidere singolarmente se evitare assembramenti, lavarsi le mani correttamente, e se si è malati decidere di isolarsi ( qui si vede la responsabilità che ognuno decide di assumersi), ma certo non è la giusta soluzione uccidere la vita dei cittadini in ogni sua forma e  bloccare la cultura che già è in crisi.
Troppo spesso quando ho tentato di far ragionare gli impauriti (familiari compresi) mi sono sentito dire che bisogna “obbedire” e non protestare, come noi popolo italiano siamo soliti fare, e che bisogna scegliere la Salute. Una salute che è per forza opposta alla cultura, all’economia di un paese e che non può essere parte integrante di esse.
Sinceramente queste dichiarazioni mi spaventano molto, vuol dire che non siamo capaci di ragionare lucidamente in situazioni che appaiono preoccupanti. Non voglio pensare che siamo capaci solo di affidarci a un uomo forte che ci salvi tutti, alla V per vendetta, senza che ci impegniamo a ragionare in quanto popolo composto di liberi cittadini (anche se non c’è una volontà di ottenere una supremazia di proposito da parte del governo Conte). Quello che però mi spaventa è come questa “malattia mentale”, di cui molti di voi hanno parlato, si propaga e sempre di più tutti si convincono che cedere le proprie libertà per una Sicurezza maggiore sia la cosa migliore da fare.
Qualsiasi cosa ribatterai a questi “infetti” parleranno di Sicurezza, Prevenzione e soprattutto di Salute. Se per caso avrai un’ opinione diversa sarai etichettato come irresponsabile o come uno che pensa solo agli odiosi soldi. Gli stessi soldi che permettono a ognuno di noi di sopravvivere, anzi di vivere e che in questi momenti mancano nelle tasche di molti lavoratori che devono continuare a  pagare le tasse.
Verranno forse censurati tra non molto coloro che pensano al futuro del paese e non a farsi rinchiudere in casa per il Covid-19?
 
Qui riporto citazioni sul concetto di libertà opposto alla sicurezza.

Libertà
Podestà di vivere come ti piace, contrario di servitù [Latino: libertas].

La libertà è la facoltà dell’uomo di determinarsi da sé, di agire secondo la propria volontà e la propria ragione. Molti governi sostengono di garantire questo diritto, ma spesso la gente non ha la libertà assoluta di agire o di parlare senza censura. La gente in carcere desidera la libertà; le persone che vivono sotto un governo oppressivo anelano anch’essi alla libertà; in Italia, i cittadini hanno – teoricamente – “libertà di opinione e di espressione”. In filosofia, la libertà si definisce negativamente come assenza di costrizione e positivamente come condizione di chi si autodetermina, cioè di chi è causa e principio del proprio agire.

“L’uomo crede di volere la libertà. In realtà ne ha una grande paura. Perché? Perché la libertà lo obbliga a prendere delle decisioni, e le decisioni comportano rischi.”
Erich Fromm
“Viviamo in una democrazia apparente, in cui la libertà è forse soltanto un’illusione della nostra mente…”
COMMENTO DELL’AUTORE DELLA FRASE: frase tratta dal libro dell’autore “Il lato oscuro della luna”
Stefano Nasetti
Chi rinuncia alla libertà per raggiungere la sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza.
Benjamin Franklin

Invece di parlare di Sicurezza al di sopra di ogni cosa, che ormai sembra essere il pane quotidiano di tutti , forse dovremmo cominciare a chiederci perchè ci sono stati dei tagli alla Sanità con la perdita di ben 70.000 posti letto nell’arco di 10 anni…
E perchè bisogna fermare la cultura in ogni sua forma? Dobbiamo per forza mettere in ginocchio il nostro paese danneggiando l’unica cosa che ci dovrebbe contraddistinguere?