Ripartire dalla forza della cultura. In tutta Europa

La didattica a distanza è una cosa mostruosa. Il teatro è insostituibile perché è un unicum

[Con la chiarezza e la libertà che i Greci chiamavano parrhesìa, Luciano Canfora mostra che cosa si sarebbe dovuto capire, che cosa non si è fatto, che cosa è ancora possibile realizzare per salvaguardare l’istruzione e il teatro, vale a dire i luoghi in cui è nata e deve essere coltivata la civiltà europea]

Intervista a Luciano Canfora, di Caterina D’Ambrosio
(da treccani.it, 13.5.2020)

In questo periodo di pandemia, in cui ognuno di noi ha anche rinunciato ad alcune libertà individuali, assistiamo al manifestarsi di una fragilità della cultura.
Non mi stupisce per nulla, anche durante l’ultima guerra mondiale è successa la stessa cosa, per cause diverse ma non meno gravi e impedienti. Mi sorprende che quasi quotidianamente si faccia il catalogo delle cose che non possono funzionare come prima. È talmente ovvio che mi sorprende la sorpresa. Quasi tautologica. Si inventano le cose da lontano, da lontano forse prenderemo anche il caffè.

Si parla anche spesso di una fragilità della scienza. Cosa non ha funzionato?
[Canfora] Se per scienza intendiamo la medicina dobbiamo ricordare che, purtroppo, non parliamo di una scienza esatta. È una disciplina empirica nella quale si cerca di introdurre elementi di oggettività. Una volta c’erano i medici di famiglia che avevano una potenza diagnostica derivante dall’infinita esperienza. Tutto questo non c’è più, sostituito dal continuo ricorso alle diagnosi strumentali. La scienza è un’altra cosa. La medicina arranca, ed è anche umano che sia così. Un medico deve guardare l’interno non potendo che guardare l’esterno, quello che Kant ‒ in filosofia ‒ definiva come la “cosa in sé”: si vedono solo i fenomeni poiché la cosa in sé non si vede mai. Si tenta di vedere l’invisibile che è racchiuso dentro il corpo umano: un lavoro straordinariamente difficile, essenzialmente diagnostico. Dopo di che non parlerei di fallimento ma di una sfida inedita davanti alla quale si è trovata una disciplina che non ha mai potuto conseguire l’oggettività.

La fruizione della cultura avviene con modalità diverse, piattaforme, lezioni a distanza, solo per fare qualche esempio. Un limite o uno strumento in più?
Si fa tantissima retorica su questo; anche i cosiddetti pensatori che si alternano in TV teorizzano che dal male viene il bene, magnificano il valore della didattica a distanza. È chiaro ‒ diciamocelo ‒ che sono tutte sciocchezze. La didattica a distanza è una cosa mostruosa che non serve a nulla se non a riempire il tempo. Discorso diverso per i musei: una fruizione di immagini, repertori, materiale illustrativo a distanza si può realizzare. Per teatro e cinema è impossibile. La cosa buffa è che si tratta palesemente di un disagio del quale liberarsi quanto prima, mentre c’è chi invece teorizza che si sia aperta una prateria di cose meravigliose. Credo che ‒ se non altro per ragioni anagrafiche ‒ non godrò di questa “gioia”.

La cultura è un bene comune che appartiene a tutti, non solo all’Italia. Per questo il direttore della Treccani, Massimo Bray, ha proposto la costituzione di un Fondo Europeo che sostenga e rilanci la cultura.
Un’idea ottima, non solo per questa fase ma soprattutto come rilancio del patrimonio culturale, che troverà, però, probabilmente l’opposizione di Mark Rutte (primo ministro olandese, ndr). Ce ne faremo una ragione e vedremo chi vince. Bray fa bene a battersi per questo, è la cosa giusta. E, ovviamente, tifo per lui.

Il portale Treccani.it sta registrando in queste settimane un numero altissimo di visite. Perché secondo lei?
Sono numeri che confortano e, aggiungo, per fortuna le persone si rivolgono alla Treccani! È una fonte autorevole. Se le persone si limitassero solo all’informazione che viene da TV e giornali sicuramente ne ricaverebbero informazioni inesatte, imprecise, parziali. D’altra parte, sappiamo che si può accedere a tutte le opere dell’Enciclopedia, anche le più remote nel tempo, grazie alla mediazione informatica. È un baluardo dell’informazione scientifica del nostro Paese. Louise-Noëlle Malclès, forse la più grande bibliografa francese, diceva sempre che ‒ prima di qualsiasi altra fonte ‒ si documentava sull’Enciclopedia Italiana.

Sono tante le figure del mondo della cultura in difficoltà a causa della pandemia. Quali provvedimenti secondo lei possono essere d’aiuto?
Sono realtà molto diverse: ci sono gli attori, i cantanti lirici, il cinema, il teatro. C’è, tuttavia, tutto un settore, cioè scuola, biblioteche, università, per il quale il rimedio c’è. Perché i nostri ragazzi non possono tornare a scuola hic et nunc? Perché i nostri istituti pagano i danni delle riforme degli ultimi anni, soprattutto della riforma Gelmini, che ha allargato il numero di studenti per classe rendendo difficile l’insegnamento. Bisogna abbandonare la formula delle classi pollaio e arrivare a classi più piccole e a una didattica migliore. Bisognerebbe quindi invertire una tendenza nel bilancio dello Stato, investire nell’edilizia scolastica, non solo nell’assunzione di nuovi docenti. Queste sono realtà in cui si può portare rimedio, volendolo. Purtroppo abbiamo il vezzo orribile, in questo Paese, di considerare il comparto scuola-biblioteche-università come una Cenerentola. Compriamo F15 che non useremo mai e ci disinteressiamo, invece, dell’istruzione, che è un problema capitale.

Ma non c’è solo l’istruzione…
Per il cinema e il teatro, ma direi soprattutto per quest’ultimo, il problema è enorme. Il teatro è insostituibile perché è un unicum. Il regista, gli attori, il pubblico sono un’unica comunità. Un grande autore come Bertolt Brecht, il teorizzatore del teatro epico dove il pubblico è coinvolto nella rappresentazione, avrebbe vita dura in questa situazione. Più che una bacchetta magica ci vorrebbe buon senso, ma soprattutto senso dello Stato.

Paolo Rossi: “Il teatro può ripartire dai cortili o nelle stazioni”

“Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema”


Intervista a Paolo Rossi di Anna Bandettini
(da la Repubblica, 9.5.2020)

“Dammi un limite e io lo sfrutto a mio favore”. Dopo più di due mesi di vita da soldatino (“sveglia alle 6, pulisco casa, cucino, telefono al nipotino, compro giornali e sigarette, lavoro, dormo, sveglia alle 6…”) Paolo Rossi sta organizzando il suo spirito guerriero come ai tempi di Comedians, lo spettacolo che negli anni Ottanta rivelò il suo talento di artista irregolare, anarchico, dirompente. “Riprendo a fare teatro – dice – intanto con le prove. Poi sfrutteremo l’estate per fare spettacoli all’aperto”.

Spieghi come farà.
“Dal 19 inizio le prove, rispettando le regole. Saremo io e i miei tre musicisti-saltimbanchi, il distanziamento sul palco c’è. E sottolineo l’importanza delle prove. Se vogliamo tanto aprire i teatri, cosa portiamo in scena se non proviamo? Gli streaming che abbiamo fatto in queste settimane? Le prove sono teatro e spesso anche più interessanti dello spettacolo, quindi le apriremo al pubblico. D’accordo con Walter Zambaldi, il direttore dello Stabile di Bolzano con cui lavoro, facciamo entrare non più di trenta spettatori in un teatro da 800 posti. Se poi non ce lo permettono, ma sarebbe strano perché non è una pubblica manifestazione, abbiamo già prenotato un parrucchiere”.

E che c’entra il parrucchiere?
“Visto che dal primo giugno loro possono riaprire… Sarà un modo diverso ma sempre teatro è”.

Una provocazione?
“Ma scusa, se daranno il permesso ai calciatori di allenarsi, alle chiese di aprire, devono per congruità dare a noi artisti il permesso di lavorare. Noi siamo più capaci di sfruttare, con creatività, i limiti e le regole. Le prove aperte sono già spettacolo. Quello vero si farà in estate all’aperto, sarà agile, concepito per poter andare nei cortili, in strada, in stazione, come facevano i maestri, i comici dell’arte, ma anche Jannacci o Dario Fo: Morte accidentale di un anarchico non sarebbe mai nato se si aspettava il sostegno del ministero. Poi, quando si potrà, lo porteremo al chiuso. Penso anche a un’altra possibilità, un’interzona tra lo spettacolo dal vivo e la registrazione video dove mostrare quello che nello spettacolo non si vede”.

Di che spettacolo si tratta?
“Quello che doveva andare in scena al Piccolo di Milano in questi giorni, tra l’assemblea, la sceneggiata e la tragedia greca. Una stand up applicata al rituale. Si intitola Su la testa, come la mia trasmissione di Rai 3 degli anni Novanta, è un bel titolo per questo momento e siccome l’ho inventato io, lo posso resuscitare. E poi perché porta buono. Sottotitolo: Pane o libertà. Poi c’è anche un secondo progetto”.

Quale?
“Un progetto triennale dall’autunno che partirà nei container. Su Shakespeare, ma in forma di teatro popolare. Penso a Riccardo III o Amleto, per fare teatro comico devo partire dalle tragedie. La comicità che mi piace fare investe nella poesia, altrimenti finisce come i talk show, la satira che imita, la caramella che guasta i denti. Ma quella non è roba mia”.

Perché questa voglia di ripartire costi quel che costi?
“Noi attori non possiamo stare fermi a firmare appelli e basta. La domanda che faccio ai teatranti è: siamo sicuri che il teatro viva solo nel suo luogo deputato? Che i teatri saranno così pieni da non permettere il distanziamento? Che invece di inventarci qualcosa dobbiamo tornare alla normalità? Sai quello che slogan che circola: non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema”.

Ringraziare, precisare, immaginare. riAprire i teatri (2)

di Gabriele Vacis (07.05.2020)

Prima di tutto ringraziare.
Grazie alle tantissime persone che continuano a condividere, commentare e criticare il documento “riAprire i teatri”.
Grazie a due maestri che ci hanno incoraggiato con parole bellissime: Eugenio Barba e Giuliano Scabia. Ringrazio loro insieme a tutti quelli che ci hanno mandato e continuano a scriverci buoni consigli.

Secondo: precisare.
L’idea potrà partire quando sarà sano aprire i luoghi pubblici. Non è una sollecitazione ad affrettarne la riapertura. Semmai è un’idea per rendere possibile l’anticipo della riapertura, per aprire in modo nuovo: se aspettiamo che si possa tornare a riempire i teatri rischiamo di tenerli chiusi mesi e mesi. Partiamo con il teatro oltre lo spettacolo, il teatro di cura.

L’idea riguarda il teatro pubblico. A Torino c’è un teatro privato gestito da una gran donna che si chiama Claudia Spoto. Immagino che questa chiusura le procuri grandi difficoltà: queste aziende private vanno aiutate come si aiutano le altre aziende. Anche di più, perché un teatro come il Colosseo non guarda solo al profitto, ma anche alla cultura. Anche il teatro privato genera consapevolezza sociale. Ma io parlo del teatro pubblico, quello pagato con i soldi dei contribuenti, è lì che si possono sperimentare nuovi modelli di convivenza.

Terzo: immaginare.
Come si finanzia tutto questo? Con gli stessi soldi di prima. Ma distribuiti in modo diverso. Garantendo certo la stabilità degli apparati organizzativi ed amministrativi. Ma estendendola anche agli artisti. Una sorta di reddito garantito per attori, tecnici, scrittori… Prima lavoravamo sempre di più per guadagnare sempre meno. Le tecnologie liberano tempo. Il lavoro di tante persone lo faranno le macchine. Ma la ricchezza continuerà ad essere prodotta. Bisognerà trovare il modo di redistribuirla. E la redistribuzione della ricchezza passa dal riorganizzare il tempo delle persone, dall’inventare occupazioni motivanti, coinvolgenti, gratificanti. I nuovi lavori dovranno gestire l’otium latino, che non è il padre dei vizi, ma ricerca di consapevolezza di sé, degli altri, del tempo, dello spazio. I grandi teatri storici sono spazi ideali dell’otium.

L’arte, la bellezza, il teatro sono rimasti per troppo tempo prigionieri della forma. Liberiamoli nell’inclusione, nell’interazione tra le persone! Mettere in scena tutto quello che c’è dietro e oltre lo spettacolo significa ridefinire il rapporto tra lo spettacolo e il teatro, tra la forma e la relazione tra le persone. Il teatro nasce come pratica di guarigione: il teatro di Epidauro era un reparto dell’ospedale più grande dell’antichità. Il teatro ha, dalle origini, a che fare con la cura della persona. Siamo costretti, temporaneamente, a sospendere lo spettacolo? Approfittiamone per dare spazio al teatro. Cogliamo l’occasione per rendere accessibile il teatro a chi non ci ha mai messo piede. E’ tanta gente! Facciamo scuola nei teatri, naturalmente per fargli vedere Goldoni e Shakespeare, per fargli capire come funzionano Goldoni e Shakespeare. Facciamo vedere a come un grande regista e una grande attrice costruiscono un personaggio o interpretano un testo, uno di fronte all’altro come Marina Abramovic in “The artist is present”. Ma facciamoglielo vedere nel momento in cui nasce. Il teatro è forma nascente. La forma cristallizzata lasciamola a Netflix, che sa cristallizzarla molto meglio.

Ma sia chiaro che non è la soluzione definitiva. Quando si potrà tornare a riempire i teatri si rimetteranno in scena i grandi spettacoli di tradizione che sono un patrimonio inestimabile. Nel frattempo avremo accumulato l’esperienza del teatro oltre lo spettacolo, che ci avrà insegnato ad usare in modo nuovo e meraviglioso i teatri. E, state certi: spettacoli di tradizione e teatro di cura della persona convivranno in armonia, nutrendosi a vicenda: una forma concreta di sviluppo degli spettatori e di innovazione delle istituzioni.

Il teatro nasce dal rito, dal gioco, dalla narrazione. Riportiamo rito, gioco e narrazione a teatro.

Citazione che ha inviato un’amica: il teatro è una scuola di pianto e di riso, è una tribuna libera da cui gli uomini possono denunciare morali vecchie e equivoche e spiegare le leggi del cuore e del sentimento umano, dice Federico Garcia Lorca, il giorno che non avremo né scene né costumi metteremo in scena il teatro classico con le nostre tute da lavoro.

La città che viene

di Virgilio Sieni
(dal 1.1.2020, una serie di appelli al fine di riflettere insieme sulle urgenze e le necessità di questo momento, www.virgiliosieni.it)

Lettera appello Sulla distanza dell’altro

Scrive un bambino di 10 anni: “il contatto è un punto di riferimento che si sviluppa con il tempo quando una persona prende fiducia in te”.

Quando oggi parliamo di distacco, cosa intendiamo esattamente? La lontananza o l’abbandono forzato delle abitudini? Il non poter fare le stesse cose? Si potrebbe dire che l’essere umano è il portare a compimento l’agire della natura.

Nel rispetto dei morti e del dolore degli altri, adesso il nostro compito è cercare di esistere, non sussistere, ma essere assieme. Non possiamo dunque pensare che la cosiddetta ripartenza abbia come orizzonte le stesse mosse che ci hanno condotto in questo abisso tragico per l’uomo. Dobbiamo limitare sempre di più i comportamenti che accentrano e accumulano, che inquinano e infestano.

Già stiamo subendo mutamenti profondi che possono comunque essere considerati positivi: i gesti nuovi, quelli prossimi alla commozione e al cercare l’altro, aprono a forme di tattilità nella prossimità dell’altro, alla compassione più che al distacco forzato. Mi sembra che questi comportamenti hanno instaurato un dialogo con i gesti del passato e credo che stiamo già lavorando all’uomo futuro in maniera responsabile.

Sono gesti veri perché non guidati dall’istinto e neanche dalla razionalità.  Sono gesti veri perché emergono come soluzioni distillate dai gesti passati, perché provengono dalla nostra archeologia, la sola in grado di mantenere un legame con ciò che saremo. In questi gesti si racchiude tutta la necessità dell’uomo di perseguire la ritualità conoscitiva che il teatro propone per equilibrare e meditare sulla verità, sulla democrazia. Privati di questi gesti l’uomo impazzisce malamente.

Camminare con attenzione, sensibilizzarsi alla densità del vuoto, abbandonare progressivamente l’automobile e non rifugiarsi in essa, scoprire il territorio intorno, praticare la sospensione e l’attesa, resistere consapevolmente ai mutamenti di separazione, sono tutte declinazioni dei comportamenti del presente.

Dobbiamo renderci conto che è molto pericoloso privare l’essere umano della sconsideratezza del gesto e della ritualità delle azioni che costellano la vita in ogni suo frangente, dalla nascita alla morte, dal gesto del saluto all’odore dell’altro, dal compianto all’abbraccio.

È importante sapere e riconoscere cosa ci ha condotto a questa tragica situazione per non ripetere gli stessi meccanismi. Certamente il mondo della globalizzazione ha contribuito in maniera determinante alla distruzione delle biodiversità, alla dispersione del concetto di vicinato, cosi come alla messa in crisi della frammentazione delle micro-realtà per restituirci l’agire sclerotizzato dei macro sistemi dell’accentramento.

Le nostre città e i borghi rurali sono stati in gran parte privati delle funzioni antropologicamente necessarie per la creazione di comunità solidali; basti vedere come la costruzione di orribili architetture del commercio corrisponda alla chiusura del dettaglio, lasciando sparire il piacere della scoperta delle tracce di una comunità che abita e costruisce la propria città.

L’agire dell’uomo, cioè il portare a compimento le azioni, ora dovrà ampliarsi e rinnovarsi a partire dalla fiducia nell’altro, intesa come capacità molecolare di prossimità e attesa perché come ci indica il bambino di 10 anni, la fiducia richiede il tempo dell’esperienza e non la corsa al consenso.

Dobbiamo pensare alla scoperta dell’infinito nella cura del territorio, con obiettivi rivolti al sostegno e allo sviluppo d’interazioni organiche tra luoghi e abitanti, esaltando la convivenza e concentrandosi sulle relazioni generative che definiscono le funzioni e le azioni del costruire e dell’abitare. Dobbiamo pensare a costruire geografie di vicinato tessendo camminamenti dall’incontro di traiettorie costruite seguendo i dettagli della natura e dei comportamenti.

La lezione che stiamo ricevendo ci induce necessariamente verso una virata straordinaria dove la prima regola sarà la scoperta di misure nuove. Questo tempo dovrà sviluppare l’attenzione alla città nell’espressione dei suoi dettagli e il costruire nella ricchezza del paesaggio, nell’ascolto e nel rispetto delle tracce, dei gesti, della memoria, delle opere dell’uomo e nel considerarci ospiti della natura.

Il nostro compito, oggi, sarà quello di elaborare esercizi di liberazione, proponendo progetti che hanno assimilato la lezione di un corpo che procede solo perché in dialogo con il mutare continuo delle cose.

Prenderemo in considerazione che, così come un corpo necessita di un organismo complesso fatto da un’infinità di grandezze, anche le tracce del paesaggio che intravediamo, dovranno necessariamente arricchirsi di ascolti e attese, ricercando un equilibrio ambientale che richiede una profonda diversificazione.

Come sappiamo bene, la cultura è un mezzo per salvare la specie: solo nella relazione con l’altro si può rintracciare il motivo per cui non ci siamo ancora estinti.

In questo senso intendiamo la danza, il teatro, la musica e tutte le arti dal vivo: il compiersi di azioni assieme, riconducendo la condotta dell’agire alle forme della comunità. In questo senso siamo compresi nel vicinato amorevole dello spazio che ci salverà.

Per ripartire subito
Con passi diversi

1.
Geografia culturale di vicinato.
Dobbiamo sviluppare la costruzione di una geografia culturale di vicinato secondo una diffusione di esperienze per la cura e la rigenerazione dei territori individuando nella tessitura del territorio il tema cruciale che guarda alla rigenerazione della città e la creazione di comunità. Lo sviluppo nei territori di pratiche di trasmissione e formazione, l’elaborazione di percorsi creativi, la costruzione di spazi condivisi, l’emergere di comunità di cittadini partecipatori sono gli strumenti attraverso i quali dar vita a contesti artistici capaci di approfondire la ricerca poetica in relazione al senso dell’abitare i territori e i luoghi e come questi possano diventare gli alleati per una città ospitale, creativa, inclusiva.

È il momento di rigenerare e costruire spazi per il futuro. Dare il segno di una cultura che inizia dalla cura del territorio e si avvicina, s’incarna con gli abitanti generando spazi aperti e esperienze di partecipazione, educazione e visione rivolte a tutti.

2.
Partendo da una geografia diffusa nei territori della città, è necessario sviluppare un reticolo di spazi all’aperto e al chiuso sull’idea di geografia poetica sociale fondata sull’ascolto del paesaggio.

Dobbiamo aiutare i teatri e questa nuova visione servirà come laboratorio permanente sul senso di distanza, ascolto e prossimità rivolto a mantenere quelle che sono le funzioni primarie dell’essere umano che si confronta e si accresce con la comunità, la cura dell’abitare, l’articolazione del lavoro, coltivando il desiderio e la curiosità.

3.
Si dovrà parlare di diffusione, un agire ontologico che guarda alla riorganizzazione del lavoro culturale inteso come un corpo organico formato da tanti centri propulsori, ognuno in risonanza con l’altro: costruire il territorio adesso significa esaltare le diversità e farle dialogare tra loro. Sarà quindi importante favorire un dialogo innovativo tra spazi al chiuso e all’aperto e stimolare le persone al continuo esercizio della sensibilità.

4.
Lo sviluppo di una poderosa articolazione di luoghi potrebbe essere la chiave per una nuova elaborazione del concetto di distanziamento. Dobbiamo avere la forza di tralasciare le forme di un’apparente soluzione: concentriamoci sulle forme di vicinanza tra il pubblico ma allo stesso tempo assimiliamo anche un nuovo modo rivolto alla cura del territorio basandoci su un’economia che possa esaltare le pratiche teatrali in relazione alla cura della città.

5.
I contesti di trasmissione, le esperienze di educazione e i processi della visione e della performance contribuiranno in maniera decisiva alla geografia culturale di vicinato indicando e favorendo le soluzioni di adattamento dei teatri. Se da una parte sarà necessario ripensare i formati e i luoghi che i teatri dovranno predisporre dall’altra si lavorerà a creare un nuovo modo di diffusione e percezione del teatro stesso.

6.
Aperto.
Per la rigenerazione dei territori è necessario creare una rete di raccordi e passaggi spaziali nelle zone pubbliche, far si che la creatività si sviluppi nei luoghi dell’aperto e nel dialogo con le strutture esistenti e da rigenerare. I primi passi sono rappresentati dalla sperimentazione dell’aperto e della geografia poetica di vicinato nei quartieri, attuando parallelamente attività mirate da svolgersi nei teatri. L’articolazione di spazi all’aperto, pubblici, curati nei dettagli, saranno le nuove sedi per sperimentare i processi di creazione e di trasmissione.

7.
Il teatro avrà la funzione di diramarsi in azioni accuratamente studiate affinché le tecniche dell’espressione e della conoscenza dell’individuo diventino lo strumento che unisce organicamente il cittadino alla natura, l’essere umano assieme al paesaggio.

8.
Il teatro avrà il compito di costruire nuove geografie, individuando spazi altri, all’aperto e al chiuso, in collaborazione con le realtà pubbliche e private presenti nel territorio con la funzione di creare “officine culturali permanenti” in collegamento con scuole, Università, associazioni.

9.
La cura degli spazi all’aperto e il dialogo con gli spazi al chiuso saranno i temi su cui coltivare fin da subito forme d’incontro, comunità di luogo, riattivando il dialogo tra cittadini e artisti attraverso cicli di residenze, percorsi di formazione e progetti di creazione.

10.
I prossimi programmi dovranno essere proiettati verso una frequentazione continuativa nel tempo e nello spazio affinché si possa mantenere vivo il legame con l’aperto, elaborando il senso di separazione non attraverso la paura e il disagio ma con il desiderio di confrontarsi attraverso nuove forme che possano, fin da ora, rigenerare la percezione dei luoghi.

11.
I nuovi luoghi sono anche quelli già esistenti nella geografia emozionale delle nostre città, che nel loro carattere simbolico compongono una tessitura complessa e diversificata che restituisce il senso dell’arte. Sono quei luoghi da ristrutturare e da sostenere perché a limite tra l’esistenza e l’inutilità, quegli spazi liminali che generano le connessioni tra il chiuso e l’aperto; sono quelle porzioni di paesaggio che prendono corpo grazie ad un senso dell’abitare aperto al dialogo e alle forme di condivisione con gli abitanti che li riconoscono nel loro esistere.

12.
Il teatro dovrà così sviluppare un nuovo contesto articolato in una geografia di spazi connessi e ritrovati, impegnandosi in un’opera di totale rinnovamento percettivo della produzione artistica, ampliando gli spazi della visione, della residenza e della trasmissione per creare una mappa inedita di spazi e professionalità.

13.
La residenza va qui intesa come un ampliamento del concetto di atelier e laboratorio. Ogni spazio destinato all’artista sarà anche laboratorio di esperienze rivolte ai cittadini. La residenza atelier diverrà il dispositivo per la cura di spazi nuovi – palestre, biblioteche, negozi sfitti, strutture da recuperare – e allo stesso tempo l’assimilazione di luoghi all’aperto – giardini, alberi, cortili, campetti e piste, piazze e orti, davanti alle facciate delle abitazioni, adiacenti a edicole, negozi di vicinato.

14.
L’articolazione di luoghi della visione secondo vari formati possono essere una grande opportunità per la città e le sue periferie. Partendo dai teatri, dai centri culturali, dagli spazi stessi delle residenze si dovranno predisporre altri spazi scelti che nel loro insieme costituiranno progetti ideati in ascolto delle diversità territoriali. Biblioteche, palestre, spazi abbandonati o sfitti, fondi in disuso e altri edifici sottoutilizzati, dovranno necessariamente dialogare con gli spazi all’aperto che comprendono sia luoghi apparentemente marginali come per esempio l’area sotto una chioma, una pista di pattinaggio o un prato abbandonato, ma anche spazi pubblici, piazze, giardini, strade con particolare attenzione, in questo momento, al senso della veduta. La veduta offre l’opportunità di predisporre il pubblico in un’area ampia per poter osservare la porzione di paesaggio scelta per l’evento: possiamo immaginarci gli argini di un fiume, l’avvistamento da un punto rialzato, lo scorcio di una strada.

15.
L’educazione e la trasmissione dei linguaggi simbolici dell’arte, supportati dal valore della memoria, dovranno essere dispositivi diffusi che assumono tipologie differenti da luogo a luogo. L’agire delle istituzioni culturali dovrà ripartire dalle persone per legare e connettere quelli che eravamo, i nostri comportamenti e le nostre abitudini a quelli che siamo chiamati ad essere con nuove esigenze e realtà. In questa chiave possiamo pensare alla vicinanza come una possibilità per scoprire lo spazio nel suo essere veicolo delle forme d’incontro. Gli spazi teatrali convenzionali istituiranno misure necessarie per curare la distanza del contatto, mentre altri luoghi potranno più direttamente recuperare il senso aptico della vicinanza. Sarà importante sviluppare pratiche e progetti rivolti alla percezione della densità spaziale, mantenendo fertile il nostro senso dell’incontro e del legame con l’altro, sviluppando ancor di più la tattilità pur senza toccare, implementando pratiche emozionali e comportamentali.

I contesti della trasmissione diventano in questo momento determinanti in quanto bacini di promozione del pubblico poiché riescono a entrare nelle dinamiche sociali e raggiungere un’ampia fascia di cittadini. Questi sono invitati ad agire attivamente nei loro luoghi tornando a frequentare le esperienze della visione. Sarà necessario fomentare la ricerca e lo studio delle pratiche di relazione e trasmissione, creare ponti di scambio e sostegno tra le arti visive, il teatro, la danza, la musica riportando l’attenzione al carattere evolutivo della relazione tra arte e scienze umane e sociali.

16.
L’obiettivo sarà quello di esercitarsi alla democrazia dell’agire e del pensare l’arte, elaborando forme di conoscenza che si sviluppano sulle esperienze cognitive e percettive intendendo lo spazio tattile, ovvero lo spazio intorno a noi, come ciò che ci comprende.

17.
I Centri Nazionali di produzione e tutte le istituzioni sensibili ad una nuova procedura di presenza e di produzione, dovranno sviluppare percorsi per la costruzione di un territorio composto da una mappa organica di spazi da attivare con artisti, cittadini, associazioni, istituzioni. Una disseminazione di funzioni che possa generare negli individui la fiducia, la relazione con l’altro e la comunità, stimolare a differenti forme di visione e d’incontro, far crescere il senso di responsabilità civile nel desiderio di costruire la città che viene.

18.
Con il Comune, la Regione e il Ministero sarà quindi necessario individuare modalità di regolamentazione per operare secondo questi principi. La strategia di recupero dovrà essere condivisa con le amministrazioni comunali per creare nuove forme di gestione e risanamento collettive.

19.
Le residenze artistiche, come le più diverse forme di produzione e di eventi diffusi nel territorio prescelto, dovranno essere riconosciuti dalle istituzioni in questione. La trasmissione e la formazione rivolta ai cittadini, ai giovani in collaborazione con le scuole pubbliche e private, rappresenteranno così un ventaglio di proposte che compongono e arricchiscono l’operare dei Centri nazionali di produzione.

20.
La nostra ripresa ci deve condurre alla scoperta di comportamenti che sappiano spostarci in una visione attuale del vivere la città e dell’agire secondo i principi di cui abbiamo parlato:
Cura del territorio.
Costruire la città che viene.
Relazione con l’aperto.
Abitare i gesti sorgivi delle azioni.
Rispetto della natura.
Contatto fisico con l’ambiente.
Fiducia nel ritrovato senso della frequentazione.
Comunità nella condivisione di azioni e pratiche.
Libertà di dialogo tra spazi al chiuso e all’aperto.
Memoria per ritrovarsi nei gesti e nelle azioni.
Distanza come soglia dello spazio tattile tra individui e natura.
Responsabilità nei comportamenti che richiedono attenzione e gentilezza.

riAprire i teatri.

Apriamoli sempre, tutti i giorni, per tutto il giorno e anche certe notti

di Gabriele Vacis
(28.4.2020)

Un’idea per riaprire il Teatro Carignano di Torino e tutti gli altri teatri d’Italia, specialmente quelli storici: aprirli e tenerli aperti tutto il giorno e, venerdì e sabato, anche la notte. Aprirli veramente. Finora i teatri erano chiusi per la maggior parte del tempo, si aprivano al pubblico soltanto per le due o tre ore dello spettacolo. Apriamoli sempre!

Gli spettatori potranno entrare ad ogni ora del giorno. Naturalmente non si potrà entrare in più di cento o duecento per volta. Ma l’estensione del tempo d’apertura permetterà d’incrementare le presenze. Gli spettatori troveranno la platea sgombra. Via le poltrone, perché all’inizio, nel settecento, le poltrone non c’erano. Torniamo alle origini. Così si potrà rispettare la distanza tra le persone. Sui palchetti il problema non c’è: uno spettatore per palchetto o gruppi di “congiunti” che possono stare vicini. Si potrebbe addirittura ripristinare la vendita dei palchetti alle famiglie. Prenoti on line, come nei musei e paghi dieci euro. Ti misurano la febbre quando entri e nel foyer si potranno ritirare degli sgabelli pieghevoli per chi vorrà sedersi in platea, alla giusta distanza. Le maschere saranno addestrate alla sanificazione che potrà avvenire periodicamente nell’arco della giornata: i teatri sono già attrezzati per le luci ad ultravioletti che sanificano gli ambienti. Per la gestione di prenotazioni e tutti i servizi si sfrutterà l’esperienza nell’uso della rete che stiamo facendo adesso, in clausura. Si coinvolgeranno le imprese e gli enti locali, per esempio il Politecnico e le aziende sanitarie che potranno fornire algoritmi di gestione e movimentazione, le aziende della moda per l’abbigliamento delle maschere che avranno mansioni più “creative”.

E cos’è che accadrà nei teatri? Io faccio teatro da quando avevo quattordici anni: da cinquant’anni sento ripetere che le prove sono molto più appassionanti dello spettacolo. I maestri del novecento ci hanno insegnato che quello che c’è dietro alla rappresentazione è prezioso quanto lo spettacolo stesso. È l’occasione buona per fare il salto, per realizzare il sogno del Living Theatre e di Grotowski, di Copeau e Paolo Grassi che volevano il teatro come servizio sociale, come la metropolitana e l’acqua potabile. Portiamo in scena tutto: le prove, le letture dei testi, l’allenamento degli attori, l’allestimento delle luci e dei suoni. Nel lavoro quotidiano della scuola per attori del Teatro Stabile di Torino, nel training, nelle lezioni dei maestri c’è tensione, c’è cultura, c’è scoperta comune, c’è tanta bellezza. Smettiamola di tenercela per noi. Da quando lavoro con disabili, studenti, con immigrati, con gente comune, vivo momenti di teatro straordinari.

Il teatro, più che creazione di forme è creazione di relazioni tra le persone. Prendiamo tutto il coraggio che abbiamo accumulato in questo isolamento e portiamo al Carignano tutto quello che c’è dietro allo spettacolo, tutti i giorni, per tutto il giorno. E anche certe notti.

Questa rivoluzione richiede una grande collaborazione tra gli artisti, i tecnici, gli organizzatori, fino alle maschere, che dovranno ridefinire i propri ruoli, ampliando le loro competenze all’arte, alla pedagogia, alla cura della persona. Il che comporta una redistribuzione radicale di paghe e retribuzioni, più equa. Servirà meno marketing e più complicità tra artisti e spettatori. Gli attori rinunceranno a un po’ di vanità in favore della comprensione. I manager rinunceranno a un po’ della loro sufficienza efficientistica in favore della solidarietà. L’obiettivo sarà la partecipazione comune alla creazione dell’evento teatro. Cogliamo l’occasione per trasformare finalmente i teatri da luoghi esclusivi in spazi d’inclusione. Cogliamo l’occasione per dare un futuro a questo straordinario patrimonio che sono i nostri teatri.

Il teatro come pharmakon

Teatro del Lemming
(28.4.2020)

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Dopo oltre due mesi di totale chiusura, lo spettacolo dal vivo non ha ancora alcuna indicazione, nemmeno all’avvio della cosiddetta “Fase 2”, rispetto a tempi e modalità di una sua possibile riapertura. Questo clima di totale incertezza è oltretutto acuito dalla totale marginalità che la questione teatrale ha assunto all’interno del dibattito pubblico. Questo non solo è grave per le centinaia di migliaia di lavoratori che non conoscono quale orizzonte futuro si configuri, ma lo è anche per lo svilimento di un’arte la cui funzione, da servizio pubblico sembra ridursi, almeno nell’opinione di molti media, a puro svago o intrattenimento.

In questi giorni si è più volte parlato di una Netflix della cultura, di trasferire cioè il teatro su piattaforme digitali. Ma per noi pensare di realizzare teatro on line è semplicemente impossibile: lo possiamo chiamare video, televisione, cinema ma non teatro. È importante ribadire, come già altri colleghi hanno fatto, che il teatro è tale solo nel momento in cui prevede la presenza viva e concreta di attori e spettatori in uno spazio condiviso. È infatti costitutivo e proprio al teatro pretendere la condivisione di un evento da parte di una comunità che si incontra. A teatro si è presenti con il proprio corpo e con i propri sensi. Si è presenti con i propri fantasmi, alle fratture del nostro tempo e si è costretti ad un faccia a faccia con l’evento. Se davvero la convivenza con quest’epidemia dovrà continuare ancora a lungo, invitiamo ciascuno di noi a pensare al teatro come a un pharmakon. In quest’epoca terribile che impone la distanziazione sociale la pretesa del teatro di essere incontro ravvicinato e relazione, oltre che come veleno può essere pensata come cura: il farmaco di cui abbiamo bisogno per restare umani. Perché accanto alla salute dei corpi è altrettanto importante prendersi cura dello spirito, della mente e delle anime.

Così se a partire dalle prossime settimane sarà possibile la riapertura delle attività sportive e di cura della persona, e si pensa di prevedere accessi contingentati all’interno di bar, ristoranti, musei, Chiese, pensiamo possa essere fatto altrettanto per lo spettacolo dal vivo. Ricordando che il teatro è fatto sia di un lavoro a porte chiuse (prove, laboratori, residenze) che di serate aperte al pubblico e che in molti luoghi di questo Paese i teatri rappresentano dei presidi culturali e civili a cui non è in alcun modo possibile rinunciare.

Crediamo poi che spetti agli artisti, nel rispetto della garanzia alla salute dei lavoratori e degli spettatori, trovare modi per cui sia possibile, nonostante tutte le limitazioni, essere fedeli alla natura propria del teatro che è quella appunto di costruire comunità, per quanto provvisorie, in cui l’Altro, lo sconosciuto, appaia non più come un pericolo ma come lo straniero di cui prendersi cura.

Pubblicato in www.teatrodellemming.it

Il deserto del reale: il teatro come spazio pubblico

di Andrea Porcheddu
da Gli Stati Generali, 6.4.2020

Benvenuti nel deserto del reale. Mai titolo di Slavoj Zizek fu più profetico. Ci siamo nel deserto.

Come in ogni deserto, sotto l’apparente nulla, formicola un brulichio di vita. Sono le tante iniziative che passano attraverso la rete, in streaming, che danno una parvenza di esistenza e resistenza in vita. Parlo di teatro e di danza, ovviamente: archivi fortunatamente aperti alla consultazione, vecchi spettacoli di repertorio, letture, interpretazioni, poesie. Dirette e differite, parole e coreografie.

C’è chi trova, e forse giustamente, molti motivi di interesse in queste proposte. C’è di tutto sul web: una miriade di belle proposte. Ma che hanno – almeno per me – il sapore di reperti, di schegge di un passato impazzito che stenta a trovare il proprio presente ed è lontanissimo dal proprio futuro. Non riesco a vederli, quegli spettacoli formato schermo; non mi sintonizzo, non ascolto. Sono riluttante, faccio difficoltà. Sono altra cosa: documenti, testimonianze (e in questo senso anche io uso i video quando, ad esempio, faccio lezione), sono anche generose esternazioni del Sé artistico. Ma vissuti così, come scintillante continuazione “nonostante tutto”, mi appaiono manifestazioni di ostinata volontà, di accanimento creativo a senso unico, messo al pari delle lezioni di yoga o di tango, delle ricette o dei tutorial per giocare a carte, in quel calderone, in quell’enorme centro commerciale che è il web. Ora, con tutto il rispetto e l’ammirazione per chi si dà da fare quotidianamente, continuo a domandarmi se sia necessario, urgente, tanto presenzialismo e indispensabile tanta produzione di contenuti di matrice teatrale per la rete.

Anche in queste proposte avverto un’ansia da prestazione, un presentismo, un senso d’obbligo morale, un dilagante e pregiudiziale entusiasmo. E di correlativa colpevolizzazione di chi – come me semplice utente, o anche come tanti artisti – non si sente di mettersi alla pari, di entrare nel gioco della virtualità.

Perché questo è il nodo principale, su cui vorrei insistere. Abbiamo perso lo spazio pubblico. Abbiamo svuotato le piazze.

Siamo intimoriti, spaventati, di camminare per strada: temiamo il contagio e temiamo – forse di più, almeno chi vi scrive che ha un problema con “l’autorità costituita”, come diceva Woody Allen – il controllo di polizia, le multe, i richiami, addirittura l’arresto (che poi come si fa a prevedere il carcere, vista la situazione delle carceri italiane in questa fase, me lo dovete spiegare).

A colpi di suadenti ma fermi decreti, ci siamo assoggettati a un sistema di vita – necessario, per carità! E lo rispettiamo scrupolosamente per il bene comune, sia chiaro – che ci sta abituando a fare a meno della condivisione fisica, che ha tolto di mezzo, con un colpo di spugna, il senso della comunità proprio inneggiando alla comunità. Tutti a casa da soli per stare insieme. Patriottismo spesso da balcone, orgoglio e inno italiano nella mortificazione generale, nel momento in cui non possiamo far altro che accettare la privazione di diritti, in cui acconsentiamo a essere “tracciati”, “monitoriati”, controllati in più e più modi. Il corpo rimane, ma solo come corpo malato o contagioso, pericoloso comunque. E mai assieme a un altro.

Così come abdichiamo all’insegnamento, rendendolo virtuale: nelle scuole e nelle università è sparita l’aula. Al di là degli evidenti problemi tecnici che sono subito discriminante sociale ed economica (chi ha il computer e chi no, chi ha la connessione e chi no), anche in questo caso, come scriveva Tomaso Montanari sul Fatto, dimentichiamo che “la scuola e l’università sono comunità. E hanno senso solo se lo rimangono, e non si riducono a somme di solitudini. La loro funzione non è rovesciare contenuti nella testa di uno studente (magari usando lo schermo del tablet come un imbuto), non è preparare ad una professione né rilasciare un titolo né valutare gli studenti: ma è quella di insegnare il pensiero critico» (Montanari, Il Fatto del 23 marzo u.s.). Invece, già temo quanti diranno: beh, avete visto, si può fare, continuiamo così.

Non fosse altro per età, abbiamo vissuto il passaggio dal giornalismo cartaceo a quello online. Ne abbiamo anche colto opportunità e novità.  Così come ci siamo adattati a vedere il “grande” cinema sul “piccolo” schermo (con tanto di interruzioni pubblicitarie). Eppure non mi sento di applicare lo ragionamento al teatro. Forse la faccenda è più sottile. Stiamo cominciando a realizzare, insomma, che la chiusura dei teatri è un problema enorme. Simbolico oltre che economico.

Intanto per l’occupazione del settore, che faticherà molto a ritrovare un assetto “normale”, se non si dà subito strumenti adeguati. Al momento, al Mibact, si parla di un contributo di 130milioni di euro. Una briciola rispetto ai danni che già si avvertono e che ancora più si riverbereranno nelle prossime stagioni. Quella del teatro è un’arte impalpabile, inafferrabile, eppure verissima, concreta, carnale, fisica. Scompare appena si chiude il sipario, ma è impregnata di sudore, e di sangue. In questi mesi è svanito un mondo: progetti, prove, allestimenti, tournée, pubblico. La chiusura ha fermato un mondo. Come in altri settori, certo: ma proprio per questo, anche il settore spettacolo dal vivo, come altri settori, necessita di profondi e strutturali sostegni.

Richiede inoltre una prospettiva e un progetto per il futuro (ma il futuro inizia domani, è già iniziato!). E non mi sembra, nel chiuso della mia stanza, di avvertire tanta progettualità. Arrivano lettere ufficiali delle associazioni di categoria, richieste dei singoli, prese di posizione. Basteranno?

Non possiamo crogiolarci in questi passatempi virtuali – nessuno sono certo lo fa. Ma il rischio è che questa apparente vivacità, nel deserto del reale, faccia scambiare un miraggio per una realtà. Il teatro non è in streaming. Il teatro è una agorà, una piazza, un vivere assieme. È il luogo di democrazia discorsiva che sembra tanto più necessario nel momento in cui la democrazia stessa è minata nelle sue fondamentali libertà per una indiscutibile e incontrovertibile emergenza. Che non sappiamo, però, quanto durerà.

C’è un nuovo sito che sta raccogliendo testimonianze – alcune delle quali piuttosto interessanti e originali, da Wu Ming, a Nadia Fusini all’articolo di Montanari che ho citato – che possono servire da motore, da slancio anche per un pensiero futuro. Si chiama corpiepolitica.it: non su tutto e con tutti siamo d’accordo, anzi, ma vi si pone radicalmente la questione della sparizione dello spazio pubblico. A che vita torneremo? Si chiedono su quelle pagine.

Forse non basta, e questo vale anche per il teatro, restaurare il mondo come era.

Mentre arriva la notizia della sospensione, per la prima volta, del Festival dei Due Mondi di Spoleto, a fronte delle tante proposte di intrattenimento, alte e basse, c’è anche chi sta lavorando concretamente non solo per risolvere l’emergenza di oggi – la cassa integrazione, i calendari, le tante partite iva prive di qualsiasi supporto, tra cui chi vi scrive – ma anche per buttare un occhio a dopodomani.

Per fare un solo esempio, è appena circolato un video del piccolo e vivace Teatro Argot di Roma – una delle fucine di quel festival Dominio Pubblico che si è sempre occupato di giovani – che sta provando a immaginare il “teatro di domani”. Dopo la sospensione definitiva della programmazione e della stagione, realtà condivisa da tante strutture, grandi e piccole, con conseguente cascata di problemi, cosa si può proporre per un futuro possibile? Quando si sarà esaurito l’hastag #iorestoacasa dove andremo? Quanto durerà, oltre la necessaria emergenza, la fantomatica “distanza sociale”?

Siamo tutti convinti e fermi nel combattere il virus, ma il teatro è assembramento. È un bene pubblico fatto di donne e uomini che si incontrano. Proprio come la piazza.