Il Covid19 come religione: i comandamenti e il clero del nuovo culto

di Kurt Appel
(da il Foglio, 21.5.2020)

[“Messianismo secolarizzato” è la formula che l’autore di questo testo propone per comprendere la sorprendente, radicale e pervasiva obbedienza a precetti, formule, dogmi che hanno ben poco di scientifico e molto di superstizioso. A conferma che quanto si sta dispiegando davanti ai nostri occhi ha radici profonde che toccano il significato dell’esistenza e lo statuto del morire. Anche per questo, per il millenario rapporto tra il potere e la morte, è necessario mantenere tutto lo spirito critico del quale siamo capaci]

La nostra società è critica nei confronti della religione. Nondimeno si celano in essa nuove forme di religiosità sempre più dissennate, che finiscono per assumere i tratti della superstizione. La versione contemporanea della Religione universale potrebbe essere nominata “Covid-19”. La situazione attuale presenta, in effetti, affinità con qualcosa di simile a una mania religiosa. Ci si trova al cospetto di un messianismo secolarizzato: al posto di attendere che Gesù faccia ritorno, aspettiamo con appassionata speranza il messia, ovvero la vaccinazione contro il Covid-19, di cui nessuno può dire con certezza quando e se mai giungerà. La politica e i mass media attuali, come anche ogni provvedimento nella cosiddetta fase 2, ci inculcano incessantemente l’idea che la nostra vita sia, al momento, caratterizzata da qualcosa di improprio: esiste, cioè, quale vita in stato di eccezione, mentre la vita effettiva potrà infatti ricominciare solo se ci salverà l’industria farmaceutica mediante un’iniezione di vaccino.

Covid-19 può contare anche sul suo clero: si tratta di quella schiera di virologi, che quotidianamente annunciano a quali cose della nostra cultura pre virus dobbiamo rinunciare, finché non giunga il vaccino messianico. L’economia affonda nell’abisso? Non importa, tanto noi si vive nell’attesa di ciò che sarà il Dopo! Non c’è più scuola, né vita sociale? Esistono l’e-learning e il nuovo mondo virtuale, tanto migliori rispetto alla realtà in quanto tale! E se anche la cultura sprofonda nell’abisso non c’è il benché minimo problema, dal momento che al suo posto già abbiamo un nuovo culto. Questo culto risponde al nome di “distanziamento sociale” e la sua vittima sacrificale sono le nuove generazioni e le loro prospettive di futuro. Il nuovo culto è poi connesso, certo, con l’apparato di mascherine e guanti in lattice, vero e proprio vestito liturgico; e il disinfettante al posto dell’acqua santa.

Naturalmente a ciò non possono non far seguito le sanzioni per chi non rispetta i comandamenti del culto i quali sono sostenuti dall’orizzonte dogmatico della nuova religione: ossia la religione del terrore, al cui centro si pone l’orrore dell’Altro. Solo quest’ultima istanza, in quanto supremo valore, sarà in grado di assicurare la vita eterna a tutti noi. Quanto dilettanti furono quei politici, che diffusero l’ansia dello straniero, ma almeno con qualche differenza e concedendo eccezioni. Ora, per contro, si è certi che dall’Altro non può che provenire un pericolo mortale: dall’Altro in quanto tale, senza eccezione. L’Altro costituisce la figura dell’inferno da evitare ad ogni costo – questo messaggio si sta già inculcando ai bambini. Ne consegue che anche la scuola non può più essere luogo della formazione, ma luogo del pericolo letale, da sostituire perciò attraverso la virtualità mediatica. Ahimè, guai a quei piccoli, che forse cercano ancora un contatto corporeo!

Ricordiamoci che l’Altro rimane sempre pericoloso anche quando si è già messo, per così dire, il virus alle spalle. Se si vedesse nel frattempo che le cure contro il Covid-19 divenissero sempre più efficaci, anche con le terapie già in uso, non si possono diffondere queste notizie perché diminuirebbero l’attesa del vaccino messianico. E’ meglio una situazione di allerta perpetua, così non ci dimentichiamo che solo il nuovo clero degli scienziati potrà salvarci. E la politica? Si è incondizionatamente subordinata ai nuovi dispensatori del verbo salvifico, come sta accadendo in modo esemplare in Italia e nella maggior parte dei paesi europei. Non può dunque fare altro che consegnare a costoro tutta la responsabilità, poiché sapranno certamente cosa dovrà essere fatto.

E ora, dicendolo in modo illuministico: qui il discorso non verte affatto su teorie cospirazioniste, né minimizza il Covid-19. Tantomeno si intende mettere in discussione l’esperienza sul campo dei medici che quotidianamente danno il meglio di sé per curare persone. Piuttosto, si tratta di chiedersi se i provvedimenti contro una simile malattia – che già con i mezzi a disposizione può venire trattata sempre meglio e che, inoltre, non colpisce la giovane generazione –, non distruggano persistentemente i fondamenti della nostra società, della nostra economia, della nostra politica, della nostra libertà e della nostra cultura. Ora si mostra quanto ingenua sia stata la sinistra nella sua convinzione che l’economia avrebbe tenuto tutto sotto controllo: se a entrare in scena è una nuova religione, allora anche l’economia diviene di secondaria importanza. E così l’abisso di un pauperismo di massa non conta più, come assume minor significato se i nostri figli ricevano una vera formazione scolastica. E l’istanza della politica, succube del nuovo sacerdozio e obbligata al dogma dell’angoscia e a quello del controllo assoluto, sterza in direzione dell’annientamento della vita sociale condivisa, dell’economia e della nostra cultura europea.

Kurt Appel è professore di teologia cattolica e di filosofia della religione all’Università di Vienna.

Ripartire dalla forza della cultura. In tutta Europa

La didattica a distanza è una cosa mostruosa. Il teatro è insostituibile perché è un unicum

[Con la chiarezza e la libertà che i Greci chiamavano parrhesìa, Luciano Canfora mostra che cosa si sarebbe dovuto capire, che cosa non si è fatto, che cosa è ancora possibile realizzare per salvaguardare l’istruzione e il teatro, vale a dire i luoghi in cui è nata e deve essere coltivata la civiltà europea]

Intervista a Luciano Canfora, di Caterina D’Ambrosio
(da treccani.it, 13.5.2020)

In questo periodo di pandemia, in cui ognuno di noi ha anche rinunciato ad alcune libertà individuali, assistiamo al manifestarsi di una fragilità della cultura.
Non mi stupisce per nulla, anche durante l’ultima guerra mondiale è successa la stessa cosa, per cause diverse ma non meno gravi e impedienti. Mi sorprende che quasi quotidianamente si faccia il catalogo delle cose che non possono funzionare come prima. È talmente ovvio che mi sorprende la sorpresa. Quasi tautologica. Si inventano le cose da lontano, da lontano forse prenderemo anche il caffè.

Si parla anche spesso di una fragilità della scienza. Cosa non ha funzionato?
[Canfora] Se per scienza intendiamo la medicina dobbiamo ricordare che, purtroppo, non parliamo di una scienza esatta. È una disciplina empirica nella quale si cerca di introdurre elementi di oggettività. Una volta c’erano i medici di famiglia che avevano una potenza diagnostica derivante dall’infinita esperienza. Tutto questo non c’è più, sostituito dal continuo ricorso alle diagnosi strumentali. La scienza è un’altra cosa. La medicina arranca, ed è anche umano che sia così. Un medico deve guardare l’interno non potendo che guardare l’esterno, quello che Kant ‒ in filosofia ‒ definiva come la “cosa in sé”: si vedono solo i fenomeni poiché la cosa in sé non si vede mai. Si tenta di vedere l’invisibile che è racchiuso dentro il corpo umano: un lavoro straordinariamente difficile, essenzialmente diagnostico. Dopo di che non parlerei di fallimento ma di una sfida inedita davanti alla quale si è trovata una disciplina che non ha mai potuto conseguire l’oggettività.

La fruizione della cultura avviene con modalità diverse, piattaforme, lezioni a distanza, solo per fare qualche esempio. Un limite o uno strumento in più?
Si fa tantissima retorica su questo; anche i cosiddetti pensatori che si alternano in TV teorizzano che dal male viene il bene, magnificano il valore della didattica a distanza. È chiaro ‒ diciamocelo ‒ che sono tutte sciocchezze. La didattica a distanza è una cosa mostruosa che non serve a nulla se non a riempire il tempo. Discorso diverso per i musei: una fruizione di immagini, repertori, materiale illustrativo a distanza si può realizzare. Per teatro e cinema è impossibile. La cosa buffa è che si tratta palesemente di un disagio del quale liberarsi quanto prima, mentre c’è chi invece teorizza che si sia aperta una prateria di cose meravigliose. Credo che ‒ se non altro per ragioni anagrafiche ‒ non godrò di questa “gioia”.

La cultura è un bene comune che appartiene a tutti, non solo all’Italia. Per questo il direttore della Treccani, Massimo Bray, ha proposto la costituzione di un Fondo Europeo che sostenga e rilanci la cultura.
Un’idea ottima, non solo per questa fase ma soprattutto come rilancio del patrimonio culturale, che troverà, però, probabilmente l’opposizione di Mark Rutte (primo ministro olandese, ndr). Ce ne faremo una ragione e vedremo chi vince. Bray fa bene a battersi per questo, è la cosa giusta. E, ovviamente, tifo per lui.

Il portale Treccani.it sta registrando in queste settimane un numero altissimo di visite. Perché secondo lei?
Sono numeri che confortano e, aggiungo, per fortuna le persone si rivolgono alla Treccani! È una fonte autorevole. Se le persone si limitassero solo all’informazione che viene da TV e giornali sicuramente ne ricaverebbero informazioni inesatte, imprecise, parziali. D’altra parte, sappiamo che si può accedere a tutte le opere dell’Enciclopedia, anche le più remote nel tempo, grazie alla mediazione informatica. È un baluardo dell’informazione scientifica del nostro Paese. Louise-Noëlle Malclès, forse la più grande bibliografa francese, diceva sempre che ‒ prima di qualsiasi altra fonte ‒ si documentava sull’Enciclopedia Italiana.

Sono tante le figure del mondo della cultura in difficoltà a causa della pandemia. Quali provvedimenti secondo lei possono essere d’aiuto?
Sono realtà molto diverse: ci sono gli attori, i cantanti lirici, il cinema, il teatro. C’è, tuttavia, tutto un settore, cioè scuola, biblioteche, università, per il quale il rimedio c’è. Perché i nostri ragazzi non possono tornare a scuola hic et nunc? Perché i nostri istituti pagano i danni delle riforme degli ultimi anni, soprattutto della riforma Gelmini, che ha allargato il numero di studenti per classe rendendo difficile l’insegnamento. Bisogna abbandonare la formula delle classi pollaio e arrivare a classi più piccole e a una didattica migliore. Bisognerebbe quindi invertire una tendenza nel bilancio dello Stato, investire nell’edilizia scolastica, non solo nell’assunzione di nuovi docenti. Queste sono realtà in cui si può portare rimedio, volendolo. Purtroppo abbiamo il vezzo orribile, in questo Paese, di considerare il comparto scuola-biblioteche-università come una Cenerentola. Compriamo F15 che non useremo mai e ci disinteressiamo, invece, dell’istruzione, che è un problema capitale.

Ma non c’è solo l’istruzione…
Per il cinema e il teatro, ma direi soprattutto per quest’ultimo, il problema è enorme. Il teatro è insostituibile perché è un unicum. Il regista, gli attori, il pubblico sono un’unica comunità. Un grande autore come Bertolt Brecht, il teorizzatore del teatro epico dove il pubblico è coinvolto nella rappresentazione, avrebbe vita dura in questa situazione. Più che una bacchetta magica ci vorrebbe buon senso, ma soprattutto senso dello Stato.

Emergenza e sistema universitario

di Rete29aprile
(15.4.2020)

In forma di lettera aperta.

Illustre ministro, cari colleghi rettori,

in questi giorni, così amaramente difficili, abbiamo letto mirabilie sul nostro sistema universitario. Abbiamo letto che “l’Università regge”, che “nessun giovane perderà tempo”, abbiamo letto dell’eccellenza della ricerca medica, tirata in ballo non per la sua strenua rincorsa, ma per sostenere come la lotta al virus potesse contare su armi eccezionali.

Insomma, abbiamo ascoltato una interpretazione tutta tesa a descrivere la straordinaria capacità universitaria di far fronte a una sfida perfettamente affrontabile. Non abbiamo sentito nulla sulla realtà rocambolesca di questi sforzi, né tantomeno sulle difficoltà croniche di finanziamento e di funzionamento che tenevano già in grave tensione il sistema universitario (come, del resto, il sistema sanitario).

Un singolare approccio trionfalistico.

Tuttavia, siamo anche noi orgogliosi. Nel senso che sentiamo gratitudine perché se l’ “Università regge” (se cerca comunque di reggere) ciò dipende soprattutto dalla dedizione, dal lavoro e anche da una generosa improvvisazione di chi negli Atenei lavora, a tutti i livelli, anche in condizioni estreme. E continua a lavorare, con motivazione profonda, pur vedendo da molti anni il sistema “picconato” da ogni lato, sommerso da procedure burocratiche sempre più assurde che provano in ogni modo a distoglierlo dalle sue funzioni: ricerca, didattica, riferimento per la società. Ciò avviene perché le funzioni formative, didattiche e sociali sono radicate in modo profondo nelle persone che svolgono quel mestiere, nonostante ogni tentativo di recidere quelle radici.

Leggiamo anche che si starebbe pensando di usare questa drammatica emergenza come un volano. La grande “prova generale” per trasformare lo “stato di eccezione” in normalità. Si pianifica sin d’ora l’uso permanente di surrogati telematici al posto della didattica in presenza. Una comoda soluzione anche per la carenza d’aule e il rapporto numerico docente/studenti.

D’altro canto è una tentazione inarrestabile per un manovratore che si trova particolarmente libero dal vincolo di condivisione delle scelte: premere sull’acceleratore dei suoi piani, cogliendo nella crisi sanitaria un’opportunità (senza aver troppe mosche al naso). E poi, qualsiasi rettore sa bene che il personale universitario si mobilita raramente e spesso sembra un ventre molle, assuefatto a incassare ogni colpo, come un sacco da allenamento per boxeurs in quarantena…

Perché mai, quindi, non cogliere un’occasione? Perché mai non procedere (così come con la privatizzazione della sanità) verso un sistema nazionale con un numero sempre più ridotto di “hub” di riferimento, in competizione tra di loro per eliminarsi a vicenda?

Il tutto – che male c’è? – progettando di lasciare molte migliaia di studenti ancora a lungo (o per sempre?) incollati agli schermi del PC di casa 10 ore al giorno, satelliti connessi con reti traballanti ma sempre più sconnessi dalle relazioni sociali e dalla prossimità umana che caratterizza l’esperienza universitaria, magari avendo anche la protervia di presentare pubblicamente la cosa come una grandiosa e splendida novità, il progresso “in loro favore”.

Chiunque abbia avuto la fortuna di esercitare l’antica arte dell’insegnamento, del trasferimento di conoscenze ed esperienze, sa che la didattica a distanza è una pallida alternativa non in grado di restituire la pienezza di un’azione educativa e pedagogica. Ma quanti proclami ascolteremo ancora per indurci a scambiare un fantasioso sperimentalismo di mezzi con il nostro fine formativo?

Che sia in corso un tentativo per trasformare “l’emergenza in opportunità” di portare avanti la dissennata politica universitaria in atto da almeno un paio di decenni in questo Paese risulta plasticamente se si mette assieme questo acritico entusiasmo per la didattica a distanza con l’indefesso procedere organizzativo dell’ANVUR nell’organizzazione dello stolido esercizio di valutazione della qualità della ricerca (VQR).

Attenzione: la VQR non è solo una valutazione del lavoro dei ricercatori/docenti; esso è anche – e soprattutto – un orientamento per la distribuzione delle risorse (posti e finanziamenti). E quindi perché mai un perverso, ottuso e disfunzionale meccanismo di distribuzione dei finanziamenti su un sistema sottofinanziato dovrebbe essere fermato? Perché mai levare le zavorre agli atenei nello tsunami? Suvvia, così si aumenta la selezione darwiniana!

Lo stolido blocco ANVUR/CRUI/MIUR, non si smentisce neanche nella tragedia attuale; non senza provocarci genuino stupore, accompagnato a profonda irritazione.

Nominatosi interprete delle comunità universitarie (ovviamente senza consultarle per nulla, siamo nell’emergenza) persegue ancora la strada del rigore travestito da meritocrazia. Si cimenta con un certo godimento nell’obiettivo di modificare le modalità didattiche (perché, sapete, c’è l’emergenza); ma continua imperterrito i giochi competitivi valutativi (perché, sapete, l’emergenza per quello non conta).

Una emergenza da vedersi quindi in modo elastico: serve a imporre cambiamenti estremi, senza discussioni; oppure a mantenersi nel business as usual, senza discussioni. L’emergenza a geometria variabile, a seconda del tema e del momento.

A noi non piace questo uso perverso di una grave emergenza reale. Vogliamo che la si guardi in faccia e si osservi bene ciò che regge (con fatica) e ciò che non regge. Noi lo vediamo. Chi invece ha in mente di fare di questa storica emergenza sanitaria e sociale non una vera occasione di riflettere e ripensare le politiche accademiche, ma una occasione tattica per accelerare i progetti che erano già nel cassetto (ovviamente virtuale) si accorga per tempo della miseria di questa intenzione

Crediamo con forza nel fondamentale ruolo degli Atenei, nello sviluppo del territorio e nella formazione di cittadine e cittadini consapevoli e competenti. Con tante e tanti colleghi abbiamo fatto, facciamo e faremo l’impossibile per loro e per questi valori. Adesso a maggior ragione.

Chi ha in mente un’idea di docenti/ “droni” della didattica o della ricerca, buoni per esser pilotati a distanza verso singoli obiettivi, anziché docenti/interpreti attenti della realtà (che l’attuale realtà con forza ci richiede) non ha in mente l’Università (universi cives) che abbiamo in mente noi; e ci troverà, come dieci anni fa (29 aprile 2010), fermamente indisponibili.

Università e ricerca. Usiamo sfrontatamente il virus come scusa, per cambiare il presente prossimo venturo

di Luca Tonin
(14.4.2020)

Sfruttiamo la situazione. Usiamo, sfrontatamente, il virus come scusa. Tipo: “L’istruzione e la ricerca hanno bisogno di 100 miliardi all’anno”. Costringiamo il governo a recuperarli, quei 100 miliardi, dagli sprechi che abbiamo tutti sotto gli occhi. O a decidere che “strategici” in questo momento non sono i miliardi buttati nelle spese militari. E raccontiamola così all’Europa: “Sai com’è, per colpa della pandemia ci servono soldi perché dobbiamo studiarlo quel virus, ma da tanti punti di vista: epidemiologico e virologico, certo, ma anche biologico, ingegneristico, statistico, storico, psicologico, filosofico, pedagogico, sociologico, architettonico, urbanistico… Sai com’è Europa, ci sono tanti aspetti su cui è indispensabile fare ricerca…”.

Ci siamo – tutti noi – infervorati, disgustati, vergognati di quello che sta succedendo. Abbiamo inveito contro i vari politici, governatori e sindaci di turno e contro il loro sfornare decreti e ordinanze di cattivo gusto (estetico e giuridico). Abbiamo guardato con distacco, tecnici, giornalisti e opinionisti mentre davano valore scientifico a metodi di indagine aneddotici basati su dati parziali e nella maggior parte dei casi inconcludenti. Abbiamo litigato, anche ferocemente, con amici di lunga data, perché assuefatti al fiume mediatico e da questi scontri ne siamo usciti sorpresi. E delusi. E feriti.

Ci siamo preoccupati del futuro, della fantomatica fase 2, del nuovo corso, di cosa succederà dopo. Ci siamo sentiti violati dalle proposte del tracciamento dei nostri movimenti su modello cinese – e a più vasta scala – dei governi asiatici. Ci siamo impuntati sul trattamento dei dati personali da parte di multinazionali che usano come scusa la nostra sicurezza e la nostra salute.

Fra un paio d’anni, quando, a livello globale, saranno stati raccolti i dati della pandemia, si potrà rileggere e rivalutare l’impatto delle scelte fatte. O forse no, ma non è questo il punto.

Leggiamo invece la situazione da una prospettiva diversa. Ritengo che questo sia un momento chiave di cambiamento, e in quanto tale, fertile di opportunità. Rimescoliamo le carte. Dopo anni di stagnazione e inerzia sociale e culturale, consideriamo questa intersezione storica come un gioioso e felice periodo: un periodo in cui si possono cambiare le cose.

Sono fermamente convinto, che ora, e per almeno un paio di mesi, ci sia un varco: lo spazio per insinuarsi fra le crepe politiche, sociali e culturali che il virus ha portato. Prima di tutto, identifichiamo con precisione cosa vogliamo modellare, non nel futuro distopico in cui ci troviamo, ma nel presente in cui saremo. Il secondo passo sarà discutere come realizzare i cambiamenti.

Sono un ricercatore di ingegneria e per mia prossimità (temporale e spaziale, professionale ed esistenziale), propongo degli obiettivi  (da estendere, integrare, limare, articolare) che riguardano università e ricerca. Per punti.

1 – Abolizione dell’abilitazione nazionale
2 – Ridefinizione del ruolo di ricercatore a tempo determinato e la garanzia proseguo carriera accademica
3 – Chiamate dirette per professori e ricercatori
4 – Definizione di parametri efficaci per la valutazione della ricerca dei docenti e dei ricercatori
5 – Aumento salario minimo per i dottorandi
6 – Valorizzazione degli assegnisti di ricerca (salario e previdenza)
7 – Possibilità per docenti e ricercatori di gestire i propri fondi liberamente
8 – Abolizione della farsa dei concorsi pubblici e responsabilizzazione delle commissioni chiamanti

Sfruttiamo la situazione. Usiamo, sfrontatamente, il virus come un’ottima scusa. L’istruzione e la ricerca hanno ora bisogno di 100 miliardi all’anno. Facciamoli stanziare e saremo bravi a dimostrare che è tutto per il virus.

Tecnologie smart per la piantagione umana

di Gianluca Giannini
(10.4.2020)

Una doppia premessa a queste brevi note:
1) mi scuso per la loro velocità e, dunque apparente eterogeneità;
2) sono anni che lavoro su questioni legate allo Stato di eccezione, il dominio del Politico, la relazione Politico-politica, le nuove forme di Sovranità ed esercizio di sovranità nel mondo globalizzato, e al di là dello scetticismo di non pochi colleghi nel tempo e, devo dirlo, anche di qualche studente.

Al netto di tutto, mi sembra di non andare molto lontano con le mie analisi e nei prospetti definiti anche durante i Corsi istituzionali e nel Seminario extracurriculare che sto tenendo su Stato d’emergenza come paradigma di governo. Il dominio del Politico, nel lavorare intorno al destino delle dimensioni del vivere associato che sono, da quasi un secolo, protese al superamento della forma Stato moderno e contemporaneo in direzione di un nuovo Leviatano. Cioè una vera e propria neo-piantagione umana, in cui l’architettura che si sta definendo ha sempre più i connotati dell’ordine chiuso in se stesso in nome di uno stato emergenziale permanente che ricorda sì lo Stato totale ma va anche oltre, in un orizzonte nuovo, dove gli strumenti di controllo, ad esempio, sono immediatamente coniugati con le coeve tecnologie smart e le bio-tecnologie solo in apparenza protese all’autoconservazione di sé da parte di Sapiens.

Ora, rispetto alla situazione attuale, non c’è dubbio, come ritiene Giorgio Agamben, che lo stato di eccezione sia paradigma di governo, ovvero è il nucleo portante della prassi della decisione politica. A differenza di Agamben, io ritengo però che ciò affondi non nella dimensione politica post-11 settembre 2001 o, nella prerogativa della forma storica Stato nell’epoca della globalizzazione, ma che sia strutturante e finanche consustanziale all’ambito del Politico. Non c’è forma che tenga sotto questo profilo: la politica (con le sue forme organizzative, si chiamino Stato, Stato liberale, Stato democratico, Polis etc.) è sempre il precipitato storico del Politico. Il problema non è in senso stretto la pandemia da Covid19, bensì la forma di rispondenza/corrispondenza dei membri dell’unità politica alla dichiarazione del sovrano, ovvero di colui il quale ha decretato lo stato d’eccezione e riposizione e mobilita l’intera unità politica e dunque i singoli membri in ragione della sua decisione e della specifica prassi.

In quest’ottica, quando i membri dell’unità politica corrispondono, le misure sono sempre proporzionate; viceversa se non corrispondono, il sovrano di per sé non è più tale e non v’è alcuna misura giacché decadono con il sovrano stesso, il quale, persino se è legalmente riconoscibile, rimane  tuttavia senza legittimità, fino a correre il rischio di divenire egli stesso il motivo (nuovo) di uno stato d’emergenza, perché non è stato rimosso.

In fondo nella nostra Carta manca un qualcosa come l’art. 48 della Costituzione di Weimar (e gli artt. 77 e sgg. cui si è appellato non il Presidente del Consiglio dei Ministri, ma, in data 23 febbraio 2020, il nostro monopolista della decisione politica, ovvero il Presidente della Repubblica, lasciano persino spazio operativo più ampio) e tuttavia la decisione sovrana, quella che si occupa della prassi della decisione politica, in nome di una minaccia esistenziale per l’unità politica, ai fini della sua salvaguardia e, dunque, del superamento dell’eccezione medesima, ha mano libera. La strumentalizzazione è nei termini letterali: è strumento politico sempre. Ricordo solo che, a voler essere obiettivi, l’Italia è in stato d’emergenza dichiarato dal novembre 2011, e la centralità del parlamento è evaporata da allora.

Sul mio Canale Youtube, come dicevo si tiene il Seminario extracurriculare, aperto alla fruizione di tutti, su: Stato d’emergenza come paradigma di governo. Il dominio del Politico. Ci tengo a precisare che, nonostante la mia diffidenza, Youtube è la piattaforma che prediligo per i seguenti motivi:
1) rimango proprietario di tutto ciò che carico e registro, anche in diretta;
2) le lezioni, sia in diretta che in differita, sono fruibili da tutti, senza bisogno di scaricare/acquistare particolari software o passare qualche brand intermediario;
3) se proprio devo transitare per i nuovi detentori dei mezzi di produzione/manipolazione/estroflessione della notizia, preferisco farlo senza i filtri di piattaforme ufficialmente istituzionali come Microsoft Teams ma che in realtà:
a) non sono di proprietà dell’Ateneo, ma in uso all’Ateneo per concessione di Microsoft;
b) non mi permettono di sapere in quale ‘magazzino digitale’ finiscono le dirette e tutto ciò che carico.

Preferisco dunque mettere tutto ciò che faccio per gli studenti e con gli studenti letteralmente ‘su piazza’.

Sapere versus nuova teologia della Scienza

di Fabio Cavallari
da Stati generali (5.4.2020)

Abbiamo vissuto un periodo temporale in cui il dispregio del sapere, della cultura, della competenza, tecnica e scientifica, sembrava essere diventato il mantra del nuovo millennio. La politica, una passeggiata da affrontare con le arti del televoto. Si doveva parlare esattamente come la pancia delle persone pretendeva, guai ad affrontare un tema cercando di travalicare il comune senso della retorica.

Dai terrapiattisti, ai no-vax, al, complottismo casalingo, sino alla ricca diaria dei migranti, ad un’idea della geografia che nemmeno in prima elementare. Un’idea del mondo spazzato via dal coronavirus, dall’emergenza, dalla paura, dalla morte senza commiato. Sembrava di potersene addirittura rallegrare all’inizio di questa vicenda, senza accorgersi che il “male” stava e sta alla radice.

Si può, infatti, credere a tutto e al contrario di tutto, quando non c’è più un’idea strutturata del mondo, una visione dell’uomo e delle cose che non sia semplicemente un compendio finanziario del mercato. Così siamo passati dal dilettantismo come dovere, alla consegna incondizionata al parterre scientifico per ogni decisione politica. Come se la scienza fosse una teologia, con una verità unica e rivelata, e soprattutto neutra al cospetto dell’economia e del capitale. Con la frase “facciamo quello che ci dirà il comitato tecnico-scientifico” la polis ha dismesso la sua funzione, trasformando il Parlamento nel passacarte dello scientismo.

E in un Paese privo di leader, di intellettuali, di una narrazione da costruire, la massa è pronta a sposare il primo “guru” di turno. Agli insipienti di ieri, si sono sostituiti i tecnici di oggi. Essi hanno competenze specifiche, che nessuno discute, ma la “crisi” di oggi non contempla semplicemente una “disfunzione” sanitaria ma una molteplicità di implicazioni che richiedono una “Costituente dei saperi”.

Si badi bene, non è il mondo scientifico ad attentare alla polis. Certo, non mancano individualità che hanno assunto l’immagine dei sancta sanctorum e che spopolano in ogni dibattito televisivo da mattina a sera, ma questa è la storia dell’uomo e del suo narcisismo. Il succo sta altrove, sta alla radice. Sta in quella inconsistente idea del mondo. Stiamo assistendo alla plastica fotografia di quel vulnus che le macerie del Novecento ci hanno consegnato. È sempre la stessa medaglia, lo stesso difetto d’origine. Cambiano i protagonisti, tutti sfuggevoli al tempo veloce della società moderna, ma il “male” è rimasto il medesimo. Oggi con ancor meno consapevolezza. È un patto costituente di cui avremmo bisogno, negli Stati Uniti d’Europa.

Mantenere il cuore civile della funzione intellettuale

di Peppe Nanni
(27.3.2020)

“A me delle libertà fondamentali non frega niente”: capita di incontrare espressioni del genere sul web, come risposta tranciante contro chiunque manifesta preoccupazione per la tenuta del quadro costituzionale. Ma questa sindrome da servitù volontaria può anche far scattare una decisa presa di posizione: se gli organismi del potere politico e amministrativo si fossero rivolti al corpo della cittadinanza con un altro tono, invitando ad assumere atteggiamenti individualmente e socialmente responsabili verso il pericolo epidemico, se avessero ammesso almeno in parte le enormi responsabilità dell’intera classe dirigente per la grave menomazione del sistema sanitario pubblico e nell’assunzione contraddittoria e intempestiva delle misure di prevenzione e contrasto, se non avessero esibito una maschera grottesca di paternalismo arrogante, se non avessero irresponsabilmente scatenato il contagio incontrollabile del panico, attraverso un uso, tanto velleitariamente stalinista quanto spettacolarmente sgangherato, del chiasso mediatico per infantilizzare  e incattivire il pubblico, se tutto questo non fosse andato in scena, forse si sarebbe potuto sopportare, almeno in parte, anche l’introduzione di (pseudo) norme tecnicamente mal confezionate e costituzionalmente inquietanti.

Così non è stato, autorizzando il dubbio che si sia messo in atto non una semplice sospensione occasionale ma un processo di irreversibile fuoriuscita dal perimetro delle libertà presidiate dal dettato della Costituzione. E la pulsione morbosa che baratta la salvezza dall’epidemia con l’estinzione di qualsiasi facoltà intellettiva e rischia di sommergere, indipendentemente dalle intenzioni di qualche apprendista stregone, non solo le basi – giuridiche, politiche, solidaristiche – di una convivenza degna di questo nome ma persino, non poi così paradossalmente, la razionalità specifica del progetto sanitario di tutela della salute pubblica. Anziché mobilitare l’intelligenza diffusa della società a fornire uno slancio responsabile e cosciente nella ricerca delle migliori soluzioni possibili, maggioranza e opposizioni, per inadeguatezza strutturale e per atavica sfiducia verso la collettività, hanno evocato i demoni del terrore davanti a un pubblico sospinto verso l’infantilismo.

Diventa allora fondamentale mantenere pulsante il cuore civile della funzione intellettuale, che non è quella di riempire i cruciverba o recitare la Vispa Teresa, come sembrano credere i governanti che hanno abolito la cultura per decreto. Irrinunciabile è la visione d’insieme, la capacità di raccordo tra le diverse prospettive valoriali, il bilanciamento tra urgenze tattiche e interessi strategici della comunità politica, la scansione tra i diversi tempi d’intervento che sono richiesti dalla società contemporanea e dalla sua complessità. In questa prospettiva, non si può che valutare con durezza critica anche la dilettantesca formulazione giuridica del decreti ministeriali, il mancato rispetto delle legittime procedure di ratifica e approvazione, la confusione terminologica e la pericolosissima discrezionalità operativa che viene iniettata nello svolgimento di funzioni così delicate in un momento di così grave smarrimento. È noto che chi rinuncia alla libertà in cambio della sicurezza, finisce con il perdere sia l’una che l’altra. Lungo il piano inclinato non ci sarà nessun “dopo” per porre rimedio, per restaurare la libertà, lo scambio educativo, l’energia delle relazioni sociali oggi traumatizzate. Sono cose destinate comunque a cambiare: rivendicarle oggi, subito, qui, non significa ripristinare la già guasta situazione di prima – che ha prodotto il pandemonio – ma tentare di inaugurare una vita nuova anziché una sopravvivenza passivamente rassegnata