Mi manca la città. Cartolina da Bologna

di Alvise Narduzzi (21.4.2020)

 

Cammino verso Piazza Maggiore; e mi scopro mosso da un’insolita curiosità di imboccare quelle vie per le quali, solitamente, a guidarmi bastano le gambe. È una domenica di quarantena, ma non hanno avvisato il Nettuno, che impettito sfoggia il suo bronzo restaurato di recente per un pubblico sparuto e disinteressato. Seduti sotto le Nereidi, i rider colorano la Piazzetta con le tonalità del rispettivo servizio di consegna. Attendono di rispondere a tutti gli ordini che l’isolamento sociale ha generato, e patiscono la spola di una volante lì attorno, come un avvoltoio sulla carogna.

Superato l’angolo di Palazzo D’Accursio, precisamente quello dove si staglia l’ombra del Nettuno che uno dei Segreti ritiene equivoca, mi fermo per fare una foto a Piazza Maggiore, immobile nella nudità che forse mai ha conosciuto fino ad ora. Prima di avere il tempo di essere insoddisfatto della foto, decido di rientrare, spinto dal perentorio: “Ehi, facciamo i turisti?”, gracchiato dalla volante in movimento. Mentre torno sui miei passi, non riesco a fare a meno di sorridere, pensando che finalmente, oltre ad un nuovo fascino alla Piazza, il distanziamento sociale potrebbe essere riuscito a dare un fine utile al Voltone del Podestà e al suo telefono senza fili.

Le foto sono per i miei. Sono increduli della desertificazione di una città che nel loro immaginario reputano cuore pulsante dell’aggregazione giovanile. Opinione di cui sono felicemente complice e artefice, poiché ho sempre venduto loro immagini al miele di Bologna – che ho imparato ad amare come casa mia, per quanto è viva. E mi manca, la città, per tutte le volte che di quella vitalità sono stato parte; ma anche per tutte le volte che, severa, mi ricordava quanto sbagliassi a non vivere nelle sue strade. Io gliele mando, le foto, ma non so come dir loro che La Grassa ormai ci sfama portando il cibo al piano, consegnandolo col braccio teso a sfiorare il crampo, nel rispetto della distanza ordinata; tantomeno che La Dotta è ormai costretta alla triste forma di precettrice virtuale. Non so nemmeno spiegare, beninteso, che stiamo centellinando i rapporti personali, tra sporadiche visite clandestine e incontri online che, saltando le strette di mano, esordiscono tutte con un inutile: “Come sta andando la quarantena?”.

Credo dirò loro, per convincere me stesso, che dopotutto Bologna è anche La Rossa. Fatto che conferma, almeno cromaticamente, l’analogia col cuore che ho spacciato così bene. Racconterò che rateizziamo i rapporti, ma tentando di non interrompere il battito, i processi di sistole e diastole del pulsare bolognese. Proprio sotto casa, davanti alla Finestrella, quando mi coglie la malinconia persino nel vedermi risparmiato il quotidiano slalom tra i cretini che fotografano una Venezia fittizia, lo capisco sul serio: mi manca la mia città.

La Civita

di Alberto Giovanni Biuso
(19.4.2020)

 

Nella mia quasi quotidiana passeggiata per Catania ho visitato oggi la Civita, il cuore antico e popolare della città. Anche queste case sghembe, questi edifici malmessi che emergono dietro e accanto la mole del Teatro Massimo, anche queste stradine che si aprono in trapezi a forma di cortili, anche tutto questo è di una bellezza struggente nei pomeriggi di una primavera senza i corpi.

Non ho incontrato nessun’auto o pattuglia delle ‘forze dell’ordine’. In effetti non sono necessarie. A trasformare gli umani in topini impauriti nelle loro tane è sufficiente il terrore che televisioni e stampa diffondono, ripetendo le veline della Presidenza del Consiglio. Credo che l’informazione potrebbe essere riunita sotto un’unica testata: Il virus.

Untori ed eroi. Cartolina da Como

Di Stefano Zanella (18.4.2020)

Le immagini, ammesso che le si voglia guardare, sono sotto gli occhi tutti. La differenza la fa la narrazione che le unisce in sequenza, l’ordine che si dà alle particelle luminose che le compongono, significati tremuli. Ma nessuno ci imporrà un’unica lettura dei segni.

L’altro giorno attraversavo via XX settembre in bici, di ritorno da alcune commissioni. Dalle piante che crescono ai bordi dei due marciapiedi, quei fiori che strappavo, per riportarli a mazzi a casa dei miei, venivano ormai scomposti e trasportati dalla mano del vento, si accumulavano, rosa, ai cigli della strada. Da lì la città deserta sembrava quanto mai l’orma antica di Cartagine, con le torri, le mura che smettono di crescere per quell’amore di Didone che avvolge di torpore i cantieri. Pensavo a questo romanticismo, una semplificazione a cui a volte si deve ricorrere, e alla necessità conseguente di decostruirlo, per poi polarizzarlo. Perché sia il romanticismo di una classe che lotta, e non quello di individui in quarantena. “Sono gli dei ad infonderci questo ardore, o ognuno, Eurialo, fa un dio delle sue voglie più buie?” diceva Niso al suo amico e amante. Anche gli eroi del mito si interrogano, vogliono svestirsi di un nome, “eroe”, messo lì per coprire troppi errori umani, e che è soprattutto nei loro corpi che scava il solco più profondo.

 

Amiamo anche leggere, studiare, fare sport in cortile, ma non basta. Non sarà un’attesa acritica, tenuta insieme dalla narrazione tossica di una lotta tra untori ed eroi.

Sulle piante dai fiori rosa si innestano già altre piante, sulle vie come via XX settembre si innestano già altre immagini, il racconto continua. Rinomineremo la città affinché la possa attraversare ogni identità. Perché non si rivolti più contro chi ritenuto debole, morte annunciata e giustificata dal narratore carnefice perché – pronunciato da labbra maldestre – ‘morte di eroe’.

Hola señora Arjelia. Cartolina da Salinas de Guaranda

di Anna Ferronato (17.4.2020)

Hola señora Arjelia,

È triste non poterci incontrare più come ogni martedì al mercato. Quando arrivavo al tuo banco di frutta e verdura, subito mi offrivi dos mandarinas, chiedendomi “In cosa la posso aiutare questa settimana?”. Adesso al tuo posto ci sono tre camion, con sopra degli sconosciuti a volto coperto, con fare sbrigativo (quanto è più lunga la coda!), che vendono frutta e verdura scadente. Altro che le tue papayas y granatillas, che ogni tanto me ne mettevi in borsa qualcuna in più!

Spero di rivederti presto, senza mascherine sul viso. In quell’occasione prossima ti abbraccerò per rendere più saldo il nostro reciproco impegno.

Con cariño,

Anna

Sto perdendo due città. Cartolina da Bruxelles

di Elia Cavarzan (17.4.2020)

Sto perdendo due città. Sono qui, ma è come essere anche dall’altra parte. In rue Joseph Coosemans, alle otto di ogni sera, la gente si affaccia alle finestre per applaudire il personale sanitario di Bruxelles. A quell’ora mi collego spesso ai notiziari italiani, per sentirmi un po’ più a casa. La cantilena quasi amabile del giornalista di turno mi rassicura, mentre condisco con sale e rosmarino una bistecca stopposa, che ho preso al supermercato da basso: quel santuario della socialità dei nostri giorni.

Gli applausi intanto si mischiano agli inutili bollettini di guerra che incalzano dal Bel Paese. Vivo in una doppia quarantena, fisica in Belgio e spirituale in Italia. A Pasqua le campane di Saint Albert mi hanno portato ai miei campanili, che si contendono tutto quello che giace tra Verona e Venezia: in un attimo ho rotto la quarantena in Belgio.

L’estate scorsa un mio collega romano, giornalista, da un’osteria sul lembo di colline che difende le Prealpi dall’avida pianura, guardando il panorama mi ha detto sorridendo: “Certo che il Veneto è solo campanili e capannoni!” Su queste due C si scontra la mia anima che vola a casa mia, che mi sembra intrappolata lì.

Quando mi sveglio sono le otto e mezzo ma gli applausi non sono ancora finiti. Non applaudo a mia volta, forse sono colpevole di apatia. Mi scopro in quella situazione eccezionale in cui vorrei dare la colpa a qualcuno, anche a me stesso, pur di spiegarmi come mai sono rinchiuso da due parti.

Me lo ricorda Bob Dylan in With God on Our Side: “That Jesus Christ was / Betrayed by a kiss / But I can’t think for you / You’ll have to decide / Whether Judas Iscariot / Had God on his side.”

Infine, decido, non è colpa di nessuno.

Gli eretici di Stoccolma

Come e perché la stampa italiana disinforma su Svezia e coronavirus

di Monica Quirico e Roberto Salerno
(da Giap, 14.4.2020)

Cielo sotto e mare sopra. Nei resoconti italiani, la Svezia appare capovolta

Il primo caso accertato di coronavirus in Svezia risale al 31 gennaio. A febbraio il contagio è ancora limitato, e “importato” dalle località sciistiche di Italia, Svizzera e Austria; a marzo il numero dei casi aumenta. Dall’inizio, è l’Agenzia per la sanità pubblica (Folkhälsomyndigheten) ad assumere la gestione della pandemia, come è normale in un paese in cui anche in situazioni di crisi sono gli enti competenti sui vari settori sociali – come il Welfare, l’immigrazione o la sanità – ad avere l’ultima parola, non il governo.

Gli epidemiologi dell’Agenzia per la sanità pubblica esplicitano dall’inizio le linee guida che orienteranno il loro approccio. Innanzitutto, chiariscono come un’epidemia – e a maggior ragione una pandemia – non sia un problema esclusivamente sanitario: la società non è un ospedale, e per affrontare una tale crisi occorre mettere in campo un ampio spettro di competenze: mediche ovviamente, ma anche economiche, sociali, psicologiche, organizzative.

Proprio per questo sottolineano come non possa esistere una strategia universale di argine al contagio, perché ogni paese deve trovare la soluzione più in sintonia con il suo contesto demografico, sociale e culturale, oltre che sanitario. Infine, indicano come obiettivo della linea svedese non il contrasto ferreo del virus, bensì il suo contenimento.

Su quest’ultimo punto ci sono state molte polemiche, perché in un primo tempo anche gli epidemiologi svedesi hanno usato l’espressione «immunità di gregge», precipitosamente ritirata dal dibattito dopo l’infelice uscita di Boris Johnson, che l’ha presentata come il sacrificio deliberato di migliaia di persone. L’idea dell’Agenzia per la sanità pubblica svedese è che il lockdown, oltre a implicare costi sociali ed economici altissimi, non protegge dal rischio di ondate di ritorno del contagio. La scelta degli svedesi è quindi quella di “controllare” la diffusione del virus, lasciandolo circolare – con molte precauzioni – nella società, in modo da non oltrepassare la capacità ospedaliera e arrivare gradualmente ad avere una maggioranza di immuni.

In tale prospettiva, è prioritario proteggere i gruppi a rischio (come gli anziani, soprattutto quelli con patologie pregresse), testando solo le persone con sintomi acuti e introducendo alcune restrizioni, ma soprattutto affidandosi a una serie di raccomandazioni; contando cioè, più che sui divieti, sulla persuasione.

Il contesto di cui parlano gli epidemiologi svedesi è quello di una società con:

■ un relativo distanziamento sociale “spontaneo”, indotto cioè dalla scarsa densità di popolazione (gli svedesi sono 10 milioni, su un territorio che è una volta e mezzo quello italiano) e dal clima;

■ uno stile di vita e una composizione dei nuclei famigliari diversi dai nostri;

■ un’alta fiducia sia verso le istituzioni sia verso gli altri genericamente intesi (un dato, questo, che salta subito agli occhi del visitatore straniero), nonostante l’ascesa del partito populista di destra, criptonazista, i Democratici di Svezia, che qualche problema segnalerà pure, nella democrazia svedese.

È in questa luce che vanno letti i provvedimenti adottati.

Come si affronta il coronavirus in Svezia

Il governo – di minoranza, composto di socialdemocratici e verdi – ha proibito gli assembramenti con più di 50 persone (fino al 29 marzo il tetto era 500); ha proibito le visite alle case di riposo (fino al 30 marzo il divieto era a discrezione dei comuni); non ha chiuso le frontiere (se non ai voli provenienti da paesi non europei, accogliendo un’indicazione dell’UE), né le attività produttive e commerciali o le scuole; tuttavia dal 10 aprile i locali che non mantengono la distanza di sicurezza tra i clienti saranno prima multati, poi chiusi, se perseverano, e gli istituti di istruzione secondaria superiore, i corsi per adulti e gli atenei sono stati invitati a partire dal 19 marzo ad adottare la didattica a distanza. È stato altresì incoraggiato il telelavoro ovunque possibile, e per tutti valgono le raccomandazioni di seguire le elementari norme igieniche, di distanziamento sociale e di prudenza: stare a casa se si hanno anche solo sintomi lievi o dubbi, non spostarsi se proprio non è necessario, ecc.

È vero, questi provvedimenti sono meno restrittivi di quelli presi negli altri paesi nordici. Norvegia, Danimarca e Finlandia hanno chiuso frontiere, scuole e negozi e posto limiti più severi agli assembramenti. La Finlandia ha inoltre messo in quarantena la provincia di Helsinki. Va forse sottolineato come queste misure siano, per le abitudini di quelle lande, decisamente draconiane. Per isolare Helsinki, si è dovuto dichiarare lo stato d’eccezione: non succedeva dalla guerra contro i sovietici tra il 1939 e il 1940.

Si noti però che nessuno di questi paesi ha chiuso le fabbriche – i luoghi in cui si presume ci sia più assembramento – né ha sospeso la libertà di movimento. Danimarca e Norvegia sono addirittura sul punto di cominciare la fase 2.

Vale la pena spendere due parole sulla comunicazione tra istituzioni e cittadini in Svezia, al tempo del coronavirus.

Ogni giorno – tranne che nel fine settimana – si tiene una conferenza stampa per aggiornare sull’andamento del contagio; l’Agenzia per la sanità pubblica è la prima a parlare, seguita dall’Ente per le politiche socio-sanitarie e dall’autorità equivalente alla nostra Protezione civile. Gli epidemiologi guardano innanzitutto al mondo, fornendo i dati della diffusione globale del virus; illustrano poi la situazione europea e infine quella svedese: numero di contagiati, ricoveri in terapia intensiva e, infine, decessi.

Nel discorso pubblico svedese sul coronavirus è del tutto assente la retorica bellicista che imperversa in quello europeo e statunitense: «in guerra contro il virus», «in trincea» ecc. Del resto, la Svezia è un paese neutrale, alieno da guerre da due secoli: qualcosa vorrà dire. Per giunta, media e istituzioni si sforzano di condividere gli «spiragli di luce», ossia le notizie incoraggianti che, negli ultimi giorni, sono venute innanzitutto da Italia e Spagna. In breve, non si punta a terrorizzare la gente in tutti i modi.

Veniamo ai dati. Al 14 aprile i casi accertati sono 11.445 (su un totale di 54.700 tamponi), ma l’Agenzia per la sanità pubblica stima che la quota della popolazione contagiata oscilli tra il 5 e il 10%. I pazienti ricoverati in terapia intensiva sono 915 e i decessi 1033; numeri in costante ascesa in termini assoluti, ma la curva, secondo i calcoli dell’Agenzia, tende ad appiattirsi.

Puntare sull’immunità diffusa senza certezza di un vaccino a breve e facendo leva sul senso di responsabilità dei cittadini è indubbiamente una scommessa rischiosa; si può sospettare che dietro si celi, più che incompetenza, una buona dose di presunzione (di essere i primi della classe) o di cinismo (non fermare l’economia: punto su cui concordano gli imprenditori e l’ultra-istituzionalizzato sindacato), e che il consenso trasversale di cui gode la linea “morbida” prepari in realtà un tiro al piccione: se le misure indicate dall’Agenzia per la sanità pubblica non dovessero funzionare, a pagare sarebbero i socialdemocratici, i quali a loro volta potrebbero scaricare la responsabilità sugli esperti.

Queste tuttavia sono, al momento, illazioni: è presto per fare bilanci, e tanto meno classifiche tra paesi.

Allora perché ci viene quotidianamente rovesciata addosso una valanga di notizie distorte, quando non clamorosamente false, sulla Svezia?

La Svezia dal buco della serratura del lockdown italiano

È il 19 marzo, con l’Italia già in clausura, che l’Ansa trasmette il primo grido di allarme: gli italiani sono preoccupati da quanto accade in Svezia. Una serie di interviste a italiani residenti in Svezia denuncia la spregiudicatezza delle istituzioni svedesi, sottolineando la differenza con l’Italia che «ha avuto coraggio e ha fatto prevalere le ragioni della salute rispetto a quelle economiche».

Nel richiamare le posizioni italiane c’è l’eco di un articolo di Roberto Buffagni molto condiviso nei social, «Epidemia coronavirus, due approcci strategici a confronto», in cui con poco amore per la complessità si sosteneva che da una parte c’era chi voleva salvare vite e dall’altra chi credeva in una logica spietatamente darwinista. Inutile dire da quale parte stava l’Italia. Anche se l’articolo si chiudeva con un poco comprensibile right or wrong is my country, non c’erano dubbi sul fatto che per Buffagni l’Italia fosse nel right.

Una settimana dopo le interviste dell’Ansa il colonnello Repubblica lancia l’offensiva, facendone subito una questione di anticonformismo scanzonato: la Svezia va controcorrente. Andrea Tarquini, la punta di diamante dell’attacco lancia in resta alla Svezia, tanto per essere chiari inizia con «Unico Paese europeo industrializzato importante, la Svezia va controcorrente sull’emergenza coronavirus».

Abbiamo provato a spiegare che le cose non stanno esattamente così, perché se è vero che le differenze con Norvegia e Finlandia ci sono, è arduo sostenere che configurino modelli differenti, considerato che le fabbriche sono aperte e che non sussistono divieti che impediscano l’attività fisica. Ovviamente il modo di procedere svedese «a molti nel mondo appare pericoloso e irresponsabile», e questi «molti» sarebbero quelli del Financial Times, che hanno parlato di «esperimento sanitario unico al mondo». Il pensoso Tarquini, spossato, chiude l’articolo amareggiato e incredulo che un governo socialdemocratico faccia come Boris Johnson e Donald Trump.

Il giorno dopo, sull’edizione cartacea, Tarquini può dilungarsi, evocando subito Finlandia e Norvegia, che avrebbero fatto diversamente, rimarcando quindi l’unicità dell’esperienza svedese resa possibile, suggerisce tra le righe, da un premier debole e da un potente epidemiologo di stato. Un racconto d’appendice in cui il popolo incastrato è rappresentato da un «gruppo di epidemiologi» che ha lanciato un appello per misure drastiche.

Il 2 aprile tocca al Corriere della sera chiedersi perché mai la Svezia continui a lasciare «tutto aperto», e i due giorni successivi Repubblica e Ansa continuano a rammaricarsi per tanta irresponsabilità mista a incapacità.

Il 5 aprile finalmente la redenzione. Curiosamente è il Corriere della Sera a stufarsi: la Svezia cambia rotta, basta col «tutto aperto»! Il premier si farà dare pieni poteri e poi vedrete, ah se vedrete. Del resto, ci informa l’Ansa, in Svezia il contagio «cresce più rapidamente che altrove», sicuramente colpa della «linea morbida».

Il 7 aprile ci siamo: la Svezia è «pronta per il lockdown», annuncia il Corriere, del resto il premier ha chiesto pieni poteri apposta. Inutile stare a sottolineare il piccolo particolare che il Riksdag – il parlamento svedese – non ci pensa neanche ad elargirli, e figurarsi quanto possa contare il fatto che questi poteri erano chiesti solo per intervenire in modo più rapido.

Ad ogni modo tutto si placa fino alla vigilia di pasqua. Il premier svedese concede un’intervista alla televisione SVT, non ha ancora finito di parlare che l’Ansa titola: «Premier Svezia, non fatto abbastanza». Cosa non si è fatto abbastanza? Ma ovvio, dice il lettore: non hanno chiuso nulla! E l’articolo lo rasserena, perché il virgolettato «mi sembra ovvio che non abbiamo fatto abbastanza» è subito dopo l’attacco del pezzo, che suona così: «Per la prima volta dall’inizio della pandemia di coronavirus il premier svedese ha ammesso di non aver fatto abbastanza. La Svezia ancora è uno dei Paesi con meno restrizioni, non c’è lockdown, bar e ristoranti sono aperti così come la maggior parte delle attività.»

Una confessione, insomma. Che non sfugge al nostro Tarquini, il quale festeggia la pasqua con un bel «mea culpa del premier svedese […] CLAMOROSA [maiuscolo non nostro, N.d.R] e vergognosamente tardiva autocritica del premier svedese, il socialdemocratico Stefan Löfven». Preso dall’entusiasmo, Tarquini si spinge fino a rivelare che le autorità sanitarie avrebbero annunciato che gli ultrasettantenni non saranno più automaticamente curati [1].

Quel che è successo veramente è che Stefan Löfven nell’intervista alla televisione svedese ha affrontato il tema della gestione delle emergenze – incluso il coronavirus – dal punto di vista delle risorse tecniche, sanitarie e organizzative, provando a condividere le colpe del suo smantellamento con i governi precedenti e più in generale con le altre istituzioni del paese. È su questo, e sulla prevenzione del contagio tra gli anziani, che il governo «non ha fatto abbastanza», non sulla sospensione della democrazia.

Può darsi che a breve la Svezia cambi strategia, tuttavia – a meno di non attribuire doti profetiche ai giornalisti italiani – quel che ci è stato raccontato fino a qui è stato, nella migliore delle ipotesi, decontestualizzato, e spesso semplicemente falsificato, facendo di un brandello di notizia – il titolo sensazionalistico di un’agenzia stampa, rigorosamente non svedese – uno scoop.

Perché solo la Svezia è additata come «eretica»?

I conti, per quanto macabri, si faranno alla fine, com’è naturale che sia. Ma non può sfuggire che mentre il governo italiano cambiava idea in continuazione, producendo una mole imponente di decreti, direttive e ordinanze, il sistema svedese ha identificato rapidamente una sorta di road map, in grado di prevedere restringimenti ulteriori via via che, eventualmente, le cose fossero peggiorate.

Che la nostra stampa mainstream abbia obiettivi diversi da quelli di fornire anche solo una parvenza di informazione corretta non vale più neanche la pena di sottolinearlo. Già prima dell’esplosione della pandemia la situazione era drammatica, con Stampa, Corriere della Sera e Repubblica che su tutte le tematiche sociali ed economiche hanno sempre assunto posizioni decisamente reazionarie appoggiandole con vere e proprie menzogne. Il fatto che tra i collaboratori di questi giornali ci siano anche persone che provano a mantenere un briciolo di deontologia non sposta di una virgola il problema, anzi, verrebbe da dire che lo peggiora, considerato che ci si serve di loro per legittimarsi. Basta osservare le posizioni assunte e il modo di riportare le notizie su tutte le questioni più rilevanti degli ultimi anni, dal TAV al problema immigrazione, dall’ordine pubblico alla recrudescenza del fascismo e l’elenco potrebbe continuare a lungo.

Ma appunto, non si deve fare l’errore di ritenere che sia stata la sciatteria dei singoli a far precipitare il quarto potere in un baratro che pare senza fondo. I giornali mainstream sono centri di potere che giocano la loro partita appoggiando pezzi di classe dirigente e, come si è detto varie volte, l’accento su chi violava le assurde e contraddittorie regole emanate di volta in volta dal governo ha avuto lo scopo ben preciso di distogliere l’attenzione dai problemi reali che hanno permesso all’epidemia di scatenarsi praticamente indisturbata.

Chiamare i medici «eroi», invece di interrogarsi seriamente sullo smantellamento del Sistema Sanitario Nazionale; il contagio nelle case di riposo “scoperto” solo quando i morti si contavano ormai a decine; lo spazio dato agli scienziati “in linea” e il confinamento di quelli che avanzavano obiezioni almeno altrettanto rigorose; la presentazione di modelli probabilistici come se fossero scienza dura, verità incontrovertibili; e soprattutto e sopra tutti, il silenzio continuo sul fatto che nelle zone martoriate dal virus gli industriali hanno fatto e fanno i loro porci comodi.

Il trattamento riservato alla Svezia rappresenta un tassello di questo disegno, serve ad assopire i dubbi, a ripetere assordantemente che «un’altra strada non c’è» e che se qualcuno si discosta dalla nostra è un irresponsabile, uno che comunque tornerà presto sui propri passi, pagando cara la deviazione dalla via maestra. Se c’è un canone ci deve essere l’eretico, ma non possono essere troppi ,perché il canone potrebbe traballare. Ecco perché la Norvegia e Finlandia si trasformano in Italie in sedicesimo, lodate per il loro rigore nonostante siano ben lontane dal modello italiano, e in parte in linea con quello svedese. Sono stati i dati di Norvegia e Finlandia – molto migliori di quelli italiani – a dirottare la scelta dell’esempio dalle parti di Stoccolma. Persino il Manifesto è caduto nella trappola della Danimarca (e Norvegia) rigorosa contrapposta alla Svezia permissiva. Questo mostra la pervasività di strategie comunicative che sono grottesche ma evidentemente sin troppo efficaci.

Cartoline dall’Italia: Roma

La città deserta non è bella ma disperata e sola

di Alessandro Calvi
da Gli Stati generali (14.4.2020)
Come sembrava bella in questi giorni Roma deserta, e quanto larghe le sue strade. Ma no, non era bella davvero. Era soltanto un’illusione. Quella bellezza era la consolazione offerta dalla tv. Vista dalla strada, attraversata in ogni suo angolo in questa Pasquetta di pandemia, Roma invece pareva nuda, spogliata a forza, illividita. Pareva incattivita dalla solitudine ch’era ovunque, assoluta e padrona. Pareva disperata e sola anch’essa, come Francesco a dir messa in piazza San Pietro. Roma insomma pareva attonita e smarrita, specchio d’un mondo malato, città di Dio sì, ma nella quale, forse, Cristo non è ancora risorto.

Così, indifferente alla misura del tempo, Roma a Pasquetta se ne è restata in attesa dietro le finestre, invasa da un sole bianco e incerto, e il cielo anch’esso bianco a smorzare ogni pretesa monumentale, a sciogliere persino il suo miracolo barocco. Neppure il suono così domestico dell’acqua delle fontane ha spezzato un silenzio radicale e senza rimedio. Camminando per i vicoli deserti sembrava d’esser inseguiti dal rumore dei propri passi. Neppure i fiumi di piazza Navona sono riusciti a rompere l’inquietudine di quel silenzio.

E, anzi, pareva che quelle statue anch’esse si piangessero ogni lacrima nella vasca che da secoli le accoglie; e i loro volti stravolti e quella mano – quella che si pretende modellata da Bernini perché il Rio de la Plata non veda la Sant’Agnese di Borromini, proprio lì di fronte – quella mano, dunque, protesa verso il cielo pareva adesso una imprecazione, mentre anche il Nilo forse ora si copre il volto con un telo, non più perché ignori la sua sorgente, e dunque il suo passato, ma per l’incertezza del futuro.

Come il Nilo, anche i romani, asserragliati nelle case, da settimane non vedono più la loro città. Ma se una città nessuno la può vedere, quella città non esiste più. Esistono le case, esiste l’interno delle case, lo spazio privato, non condiviso, che produce una esistenza individuale, non più una comunità di persone com’è invece quella modellata dalle piazze dove ci si può toccare e parlarsi. Oggi è il tempo dell’infinita quantità di esperienze separate che non conoscono più il mondo, il mondo qui fuori, quello che va in scena ancora una volta come fa da secoli e che però oggi lo fa per nessuno; quel mondo che, appunto, adesso nessuno può vedere e allora forse non esiste più.

Il fatto è che il deserto urbano non è una cosa inaudita. Le città, anzi, sono deserte nello stesso modo ogni giorno dell’anno. Deserta è la città che accoglie l’alba, quella dei primi bar che alzano la serranda, e deserta è la città di chi non può dormire e scende in strada, dei pacchi di giornali consegnati a edicole ancora chiuse, di chi fugge da chissà quali fantasmi, degli autobus notturni che tornano ai depositi, dei portieri di notte. Deserta è la città quotidiana di chi va a lavorare quando l’alba non ha raggiunto le strade ma è ancora una lusinga in un angolo del cielo. Ed è, quella, una Roma capace di mille promesse e che profuma di caffè dietro le finestre ancora chiuse. Quelle finestre poi s’apriranno per accogliere l’aria fresca del mattino: oggi invece sono sbarrate. Ciò che insomma adesso rende ogni cosa straordinaria non è il deserto il quale, poi, di per sé è pura scenografia e ciò spiega anche il brivido borghese della scoperta che tanti sembrano aver sperimentato in questi giorni: ciò che rende ogni cosa straordinaria è invece la cattività delle persone.

Così, al di là della suggestione regalata dalle immagini passate in tv e ovunque in queste settimane, il deserto di questa Roma non somiglia in nulla a quello raccontato da Carlo Verdone in Un sacco bello, né è la Roma del Sorpasso o quella del sole d’estate, feroce che scioglie l’asfalto. È invece una Roma che pare quella raccontata in Io la conoscevo bene, la città algida ma plumbea attraversata da Adriana in quel suo ritorno a casa disperato.

Ecco, allora che Campo de’ Fiori, piazza Farnese, Pantheon, Trinità dei Monti, Trastevere, Piramide, il Circo Massimo, via del Corso, in questa Pasquetta stralunata ovunque era lo stesso; persino la città politica, Montecitorio, palazzo Chigi erano avvolti in una inquietudine appena larvata. Su una panchina, di fronte a San Clemente, un ragazzo – miracolosa presenza umana! – sgranava un rosario, poiché forse non aveva altro posto per farlo. Nei pressi di piazza Navona, qualcuno cercava un riparo sistemando i propri cartoni nell’incavo di una vetrina. E poi soltanto polizia, carabinieri, mitraglie spianate ad ogni posto di blocco, ed erano decine, ovunque, fino a saturare da soli una città esausta e così vuota che si restava annichiliti di fronte a quegli stessi muri e su certi gradini sui quali in altri tempi trascorsero estati di baci, sorrisi e pure qualche addio.

E gli altri? Dove sono gli altri? Dov’è oggi la città caciarona e sfrontata? Dove sta la città indolente e sorniona? E dove la città coatta che fa la voce grossa e poi s’ammoscia in un sorriso? Dov’è Roma? Dove sta? Ecco, oggi Roma non c’è. E per questo non c’è neppure la grande bellezza promessa dalla tv che ci ha mostrato una città deserta raccomandandoci  che proprio per questo fosse bellissima, per il suo esser vuota, come se l’assenza d’ogni persona, il deserto d’umanità, potesse davvero esaltare le pietre, relitto d’un passato che senza presente diventa nulla poiché nessuno può vederlo, nessuno lo ricorda, e così sparisce anch’esso, insieme alle persone.

Quelle pietre, insomma, così sole adesso parevano morte, e morta così l’estrema bellezza di questa città, la più monumentale e splendida di tutte, città amatissima sì, ma perché fatta anche di carne, non soltanto di pietra e di sole. E senza quella carne, tutto è apparso fuori posto, persino il suo cielo indeciso, bianco e inconsolabile come il vestito delle spose.

Cartoline dall’Italia: Catania

di Alberto Giovanni Biuso
(13.4.2020)

Nella solitudine della luce ho attraversato Catania mai così splendida, così silenziosa, così oltre la storia che pure è stata. Lasciate le mura del Teatro Romano e dell’Odeon sono arrivato attraverso vicoli al Castello Ursino, alla sua imponente armonia, al suo grigio ferito e guarito dai raggi di un Sole ancora amico.
Altri vicoli hanno aperto i miei passi verso la pescheria –ho pensato: ‘almeno i pesci vengono lasciati un poco in pace in questi giorni’– dalla quale sono arrivato dietro piazza Università, proseguendo verso le strade perpendicolari a via Crociferi.

Da lì a piazza Dante, dove ho visto tre studentesse senza ‘mascherina’ passeggiare infrangendo ogni prescritta distanza. Una forma di vita umana nel grande camposanto al quale abbiamo ridotto non la città ma i nostri corpi.

Il giardino di via Biblioteca sembrava chiuso ma è stato sufficiente spingere i cancelli per ritrovarmi in una strada che da molti anni percorro tranquillamente tutti i giorni e che ho gustato respirando terra e luce.

Ho percorso questa città, e i suoi luoghi di antico amore, in compagnia della musica che ho selezionato negli anni come un botanico crea i fiori più lucenti del suo prato. Io non resto a casa, no.

Cartoline dall’estero: Ginevra. La falsa narrazione dell’imitazione del ‘modello italiano’

di Alessandro Tonin
(13.4.2020)

 

Difficile comprendere a pieno quello che sta succedendo in Italia: in questo periodo sono a Ginevra per un dottorato di neuroingegneria, e quindi vedo il tutto in maniera indiretta e lo riesco vivere solo per il tramite dei racconti dei miei amici e dei giornali. Qua in Svizzera, malgrado Ginevra sia uno dei cantoni in cui si sono registrati il maggior numero di casi, la situazione è uguale ma anche molto diversa: tutti i negozi sono chiusi (eccetto alimentari e farmacie), gli uffici anche sono chiusi, ma nessuno conta il numero di passi che fai fuori da casa, nessuno controlla dove stai andando o con chi sei, nessuno ti chiede ragione del fatto che tu vada in giro ovunque tu voglia, nessuno ti chiede di indossare mascherine (al più di lavarti le mani quando entri al supermercato). Queste misure rendono la situazione molto più accettabile, e non perché si respira la “libertà”, ma semplicemente perché la sfera sociale non è stata completamente distrutta.

Le ragioni che hanno portato la Svizzera ad adottare misure diverse rispetto all’Italia non le so: sono – come tutte le ragioni che hanno guidato le scelte di altri paesi – opache e al fondo imperscrutabili. Probabilmente non derivano da nobili principi o da buoni propositi ma da calcoli calvinisti sulla convenienza di adottare misure meno stringenti. Comunque, indipendentemente dalla ragione, la conseguenza è che a Ginevra la vita e la sfera sociale sono quasi normali, con gente per strada che chiacchiera, barboni nella piazzetta sotto casa che bevono birra, vociare di gente che si ritrova in casa.
Nel web la maggior parte delle persone se ne frega abbastanza della situazione, quelli più arrabbiati sono gli italiani che chiedono che anche la Svizzera imponga una quarantena forzata come in Italia … “Sono pazzi!” è il commento che si legge più spesso.

 

Dai miei amici in giro per l’Europa mi sembra di capire che lo stesso approccio all’emergenza adottato della Svizzera è stato seguito anche da Olanda, Germania, e in misura inferiore Inghilterra.

 

Secondo me quindi bisogna anche riuscire a smontare la falsa narrazione per cui tutti gli altri paesi stiano imitando il modello italiano e per cui, in nome della salute pubblica, non si potesse fare nient’altro o – ancora peggio – che in Italia non si poteva fare altrimenti perché, a seconda delle versioni, gli italiani non rispettano le regole e/o gli altri paesi non hanno culturalmente i contatti sociali che ci sono in Italia.

 

Mi preoccupa però molto che questa narrazione abbia fatto breccia nella mente di molti, di quasi tutti, i miei amici e anche delle persone con cui ai tempi dell’università ho condiviso varie battaglie politiche (tutte purtroppo finite molto male). Tremenda è la frase che ho letto: “noi abbiamo lottato a lungo contro la teledidattica, ovviamente le lezioni frontali sono meglio, ma magari ai nostri tempi avessimo avuto la teledidattica come l’hanno implementata ora”.

Silenzio. Catania prigioniera

di Alberto Giovanni Biuso
(7.4.2020)

Ho percorso strade della città dove di solito si incontrano migliaia di persone. Stavolta le ho potute contare: non più di dieci, alcune con i cani, altre senza. Per il resto, auto dei carabinieri e della polizia, una jeep dell’esercito, alberi che stormiscono, balconi vuoti, strade deserte, poche luci anche dentro le case. Silenzio.

Una città sparita. E quale città! Catania, la vivace, la rumorosa, l’allegra. I catanesi dissolti non certo per senso del dovere ma per il terrore e l’abitudine. Due delle forze che guidano da sempre l’autorità. Il terrore di qualcosa di invisibile pronto a intaccare i propri polmoni. L’abitudine a rimanere nelle tombe delle proprie case. In piazza Duomo ho sentito persino da lontano il rumore della fontana dell’Amenano, u linzolu per i catanesi. L’ho sentito per la prima volta nel silenzio assoluto dello spazio ridotto a memoria di ciò che per gli abitanti di questa città è il luogo per eccellenza, il luogo sacro di Sant’Agata.

Ho pensato ancora una volta a Dissipatio H.G. di Morselli, certo. Ma ho pensato che fossero davvero tutti morti.
Spariti non certo nella lucidità del senso civico, improbabile dalle nostre parti, ma nelle bare della paura. Nel feretro dei numeri ripetuti dalla televisione a ore fisse. Numeri ossessivi come i versi delle apocalissi, numeri che gelano non per la loro cifra ma per il fatto che «potrei esserci io dentro quei numeri».

Certo, potremmo esserci tutti. Ma ci siamo già tutti. L’infinitesimo del quale biologi e chimici discutono se sia vivo o se sia morto ha cancellato lo spaziotempo della πόλις, ha spinto gli umani nelle loro tane, nelle trappole del loro terrore. Spero che la vivacità dei catanesi e di ogni altra città non si abitui a questo vuoto e si ribelli alla morte sociale di cinque milioni di siciliani che si accompagna alla morte biologica di 125 persone (dato ufficiale a oggi) in tre settimane di prigione.