Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi

di Cherryblossom
(18.3.2021)

Figlio è iscritto al primo anno di un corso di laurea presso un ateneo milanese.

In teoria nel primo semestre avrebbe dovuto poter seguire le lezioni in presenza, secondo un sistema di alternanza di gruppi di studenti regolato da prenotazioni. Per garantire almeno ai nuovi studenti la possibilità di farsi una minima idea di che cosa significasse «fare l’Università».

In pratica non ha avuto un’ora di lezione dal vivo. Nonostante le dichiarazioni d’intenti e le professioni di prassi dell’ateneo in questione. In altri corsi di laurea della stessa università i corsi in presenza per le matricole hanno in effetti avuto luogo. Ma nel corso di Figlio tutti i docenti del primo semestre, imperturbabili, hanno svolto, con esiti più o meno brillanti, lezioni online.

Fine dei corsi. Esami. A distanza, ovviamente.

Secondo semestre. «Finalmente pare che avrò delle lezioni in uni. Hanno aperto le prenotazioni. Mi prenoto.». Ottimo. Vedrà infine gli edifici dell’università, prenderà i mezzi, starà davanti al portone a chiacchierare e fumare tra una lezione e l’altra. Arriverà a casa la sera stanco. Ma non di stare davanti a uno schermo.

Monta la consueta retorica bellica. Zona rossa. Fine dei giochi. Tutti a casa. Lezioni online. Uno dei docenti di Figlio, oltre a insegnare all’università, fa il consulente di aziende ad alto livello: quattro ore di lezione di fila, tutte in un pomeriggio. Così si ottimizza il tempo, ci si libera delle lezioni concentrandole in una mezza giornata e poi ci si può dedicare ad attività più redditizie che insegnare ai ragazzi.

«Madre, vado in … [altro ateneo milanese] a studiare.»
«Ma come? È aperto? Ci si può andare a studiare?»
«Sì sì. C’è un botto di gente. È bellissimo. Anzi, domani mattina mi alzo alle otto, perché se non vado presto non trovo posto.»

«Come può uno scoglio
Arginare il mare?
Anche se non voglio[no]
Torno già a volare.
Le distese azzurre
E le verdi terre
Le discese ardite
E le risalite
Su nel cielo aperto
E poi giù il deserto
E poi ancora in alto
Con un grande salto.»

È primavera.

«[…]
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c’era.»
(Salvatore Quasimodo, Specchio)

È primavera. Torna ogni anno. Anche questo.

L’idiota a distanza

di Alberto Giovanni Biuso
(13.3.2021)

L’operare dell’informazione al completo servizio delle autorità è mostrata in questi anni in modo clamoroso dalla vicenda dell’epidemia. Se infatti è evidente che un virus esiste e colpisce -come è accaduto da sempre e sempre accadrà- è altrettanto chiaro come sia stato «facile, per le élites al potere, strumentalizzare queste circostanze a proprio profitto per colpire le libertà. Negli Stati Uniti, il Patriot Act è stato adottato per contrastare il terrorismo, dopo di che è servito a tenere al guinzaglio l’intera popolazione. Le leggi eccezionali finiscono per entrare nel diritto comune, cosicché l’eccezione diventa la regola» (Alain de Benoist, Diorama Letterario, n. 359, gennaio-febbraio 2021, p. 10).
Davvero

«mai censura è stata più perfetta. Mai l’opinione di quelli cui si fa ancora credere, in certi paesi, che sono rimasti cittadini liberi, è stata meno autorizzata a manifestarsi, ogni volta che si tratta di una scelta che coinvolgerà la loro vita reale. Mai è stato permesso di mentire loro con una così perfetta assenza di conseguenze. Si presume semplicemente che lo spettatore ignori tutto e non meriti nulla»

(Guy Debord, Commentari alla Società dello Spettacolo, § VIII; Baldini & Castoldi 2008, p. 203, con delle modifiche nella traduzione).

Il risultato è anche ciò che Michel Desmurget ha definito con il titolo Il cretino digitale (Rizzoli, 2020) e che prima ancora aveva descritto come TV Lobotomie. La vérité scientifique sur les effets de la télévision (J’ai Lu, 2013). Desmurget è infatti un neuroscienziato (direttore di ricerca del Cnrs francese), il quale «vede in opera meglio di chiunque altro la decerebrazione di massa operata sui giovani cervelli in fase di sviluppo e, disgustato, scortica metodicamente questo infanticidio planetario che non osa dichiararsi tale» (Jean-Henri d’Avirac, Diorama Letterario, n. 359, p. 39). D’Avirac continua la sua presentazione del libro affermando che «ridurre un giovane cittadino allo stato di semplice consumatore sommerso da segni e immagini, il cervello impantanato nella dopamina, ridotto fin dalla più giovane età alla dipendenza dallo schermo, dal porno, dalla moda, è una pacchia per il sistema, la cui ossessione è togliere i freni al consumo, sospendere il senso critico e la nostra capacità di stabilire delle gerarchie. […] La lobotomia è molto più efficace della repressione» (Id. p. 40).
Rivolgendosi ai genitori, Desmurget scrive: «I vostri figli vi ringrazieranno per aver offerto alla loro esistenza la fertilità liberatrice dello sport, del pensiero e della cultura, invece della perniciosa sterilità degli schermi» (cit. a p. 40). 

E invece le istituzioni educative -comprese quelle italiane- sono state pronte a gettare in braccio agli schermi gli studenti di ogni ordine e grado. Non si è trattato di una soluzione ma dell’aggravarsi di un problema, il problema -appunto- della idiozia digitale. Se scuole e università hanno potuto chiudere con tanta immediatezza e facilità le loro porte agli studenti – studenti senza i quali scuole e università non hanno ragione di esistere – è perché strumenti e apparati erano già pronti a sostituire la relazione educativa con degli ologrammi disincarnati. Senza questi software sarebbe stato inconcepibile chiudere per mesi o per anni le scuole e le università. Sono dunque le piattaforme MSTeams, Zoom e altre analoghe ad aver causato un processo di impoverimento didattico e culturale che probabilmente è solo agli inizi. La cosiddetta DAD, che meglio si dovrebbe definire didattica d’emergenza, è – in questa prospettiva – l’incipit della barbarie pedagogica. E questo perché ‘insegnare a distanzaè una contraddizione in termini, perché ‘apprendere a distanza’ è una delle caratteristiche dell’idiota digitale che si vorrebbe tutti noi diventassimo: «La DAD diventa, così, un mirabile esempio di neolingua chiamata a sovvertire la realtà e ad ipotecare pesantemente il futuro dell’istituzione» (Fernanda Mazzoli, La scuola ai tempi del Covid: prove generali di colonizzazione digitale, in «Koiné», anno XXVII, 2020, p. 16).

La didattica del vuoto ha come orizzonte fondativo e come prospettiva futura ciò che Renato Curcio chiama il maestro vuoto, la cui «video-lezione, come lezione spettrale, appiattisce quest’ultima sulla mera trasmissione di nozioni, avvicinandola così a quel sapere procedurale messo in campo dalle nuove tecnologie assai più di quanto non possa farlo la lezione in presenza, la tanto attaccata lezione frontale che permette la lenta e dialogata costruzione delle conoscenze (e dei significati) a partire dalla sollecitazione ineludibile posta dal volto dell’altro e dall’instancabile attesa -carica di tutte le sfumature di un volto umano- che ne promana» (Id., p. 40).
Un maestro vuoto atto a sostituire la persona viva e socratica di colui che alla relazione pedagogica -e di conseguenza al fatto educativo- dà voce, volto, pienezza. Il maestro vuoto è il coach della palestra dell’ignoranza e della conseguente obbedienza collettiva.

«Non sanno nemmeno che faccia abbiamo»

di Alberto Giovanni Biuso
(14.1.2021)

Le gravi decisioni prese anche dalla Crus (Conferenza dei Rettori delle Università Siciliane, che meglio sarebbe rinominare Crux) sono fondate su procedure scarsamente scientifiche e socialmente esiziali, che abbiamo segnalato anche qui: Linguaggio, potere, epidemia.
Dopo aver letto questo articolo, il collega Alessandro Pluchino -fisico dell’Università di Catania- mi ha trasmesso un intervento di qualche tempo fa di Giorgio Parisi, fisico anch’egli e Presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei, il quale scrive, tra l’altro, che «come ha richiamato chiaramente la commissione COVID-19 dell’Accademia dei Lincei, in assenza di trasparenza, ogni conclusione diviene contestabile sul piano scientifico e, quindi, anche sul piano politico. Che senso ha decidere l’apertura o la chiusura delle Regioni basandosi su un numero non affidabile, con un’incertezza enorme?» (L’indice Rt è inaffidabile)

Anche per questo è grave e storica la responsabilità che i decisori politici e accademici si stanno assumendo con il mettere a rischio non soltanto i diritti degli studenti -i quali continuano a pagare ben reali tasse di iscrizione in cambio di un insegnamento e di servizi da dieci mesi soltanto virtuali– ma subiscono anche conseguenze assai dannose per la loro salute fisica e mentale, come documentano, tra gli altri, sia un testo che abbiamo già pubblicato di D., studente dell’Università di Catania sia quello più recente di una studentessa dell’Università di Udine:

«Buongiorno, stamattina sono qui per ricordarvi che gli studenti universitari non rientrano in ateneo da 11 mesi. Noto che anche dopo le feste nessuno si è degnato di considerare la categoria degli studenti universitari, totalmente abbandonata dalle istituzioni e da un ministro che ormai latita da un pezzo. In questi 11 mesi abbiamo continuato a pagare le tasse nonostante i problemi economici che tante famiglie avranno avuto e non è stato trovato uno straccio di soluzione. Sono 11 mesi che ci stiamo spersonalizzando davanti a un computer, ci sono docenti che non sanno nemmeno che faccia abbiamo e noi non sappiamo che faccia abbiano i docenti. L’Università con la U maiuscola è un posto dove si coltivano menti e si scambiano idee, menti e idee che non possono essere coltivate e scambiate tramite un pc, tramite una didattica a distanza che funge solo da palliativo per una situazione di agonia. Un paese che non si interessa del futuro dei suoi giovani è un paese vecchio, che si lamenta però quando quei giovani se ne vanno via per venire valorizzati in altri paesi. Io ormai sono esausta, stanca di sentire ogni giorno le stesse parole e di non ricevere risposte. Risposte che il paese mi deve e ci deve perché siamo anche noi cittadini, gli studenti universitari non sono studenti di serie B, sono studenti che meriterebbero un encomio per come hanno vissuto e gestito questa situazione, lasciati fondamentalmente ad “autogestirsi”. Sono momenti di vita che non ci restituirà nessuno, e non me ne vogliano i genitori di figli piccoli, però la laurea non capita tutti i giorni, la gioia di uscire dall’università dopo aver passato un esame difficile che ci stava addosso come un macigno, il poter avere un confronto diretto con i docenti e non dover sgomitare “virtualmente” su una piattaforma per farci sentire, la stesura della tesi (che vi lascio solo immaginare cosa significhi non avere il relatore vicino), sono tutti momenti che a nessuno è venuto in mente di considerare, e di considerare quanto per noi sia doloroso andare avanti così. Sto iniziando il mio secondo semestre del secondo anno di magistrale e quindi sto concludendo il mio percorso universitario davanti a uno schermo e non lo auguro a nessuno.
Rendo questo post pubblico se qualcuno volesse condividerlo (nel caso lo faceste ve ne sarei grata davvero). È uno sfogo diverso che affido ai social nella speranza che tanti si accorgano che anche noi esistiamo».

Fonte: pagina Facebook di Alessandra Peru (4.1.20121)

Mi sembra un testo davvero saggio e commovente, una testimonianza struggente, concreta e splendida da parte di una studentessa la quale ha compreso che cosa significhi essere parte della Communitas universitaria e di che cosa la stiano privando le irrazionali, contraddittorie, miopi scelte dei decisori politici e accademici, a partire da uno dei più discutibili, un soggetto politico e insieme accademico, il ministro dell’Università Gaetano Manfredi, che anche alla Federico II di Napoli, della quale è stato rettore, ricordano senza nostalgia.
Almeno Lucia Azzolina (laureata nel Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania) si è battuta, pur con scarsi risultati, per tenere aperte le scuole, mentre Manfredi è, come scrive la studentessa Peru, «un ministro che ormai latita da un pezzo».