Strategia della paura e mercato liberista nel paesaggio del virus. Gilles Clément sul Covid

Gilles Clément, Stratégie de la peur (13.4.2020)
Traduzione di Giacomo Confortin

[Un paesaggista può tanto quanto un virologo, quando sono le vite degli uomini fatte oggetto delle norme sui virus; le vite che percorrono e informano i paesaggi, non soltanto le invisibili – e perciò irrevocabili – vie del contagio. Da quando la politica si è riunita nel concilio dell’ortodossia, ogni voce discosta dal canone viene udita in due modi possibili: o pare che abbia velleità terroristiche; o, peggio, viene incompresa ma accolta superficialmente, solo per quella passione della piccola contestazione televisiva, che promuove costantemente nuovi argomenti alla lamentatio privata. Ormai siamo saliti tanto in alto sul podio offerto dal virus per osservare il nostro paesaggio vitale, che abbiamo dimenticato cosa c’è al fondo. Dobbiamo ritrovare quel peso che ci faccia aderire alla realtà, e insieme quella levità che concede un pensiero libero, rigoroso, che accomuni gli sforzi verso la vita felice dei corpi e delle menti di tutti. Ma questi stanno solo nel dibattito politico che in Italia è lungi dall’essere tale].

 

Noi non siamo in guerra. Il Covid ci riunisce, non ci divide. Esso non fa distinzione alcuna tra ricchi e poveri, bianchi e neri, disoccupati e ciondoloni per strada. Al contrario, esso è per tutti un pericolo imprevisto, un dato comune da condividere.

Il pericolo imprevisto – qualunque natura esso abbia – dona al Potere il dovere di un controllo assoluto e legittimo, dietro il pretesto della lotta al pericolo stesso. Di lì il vocabolario guerresco atto ad innescare – abolita la complessità del discorso – una strategia della paura il cui utile politico è la sottomissione. È facile condurre un popolo sottomesso; è impossibile altrettanto con un popolo libero.

Perciò si deve asservire il popolo alla maschera, al gesto di contrasto, alle distanze fissate da regolamento e al consumo orientato: è chiuso ogni negozio fuorché i grandi magazzini. Le potenti multinazionali detengono ogni diritto, compreso quello di trasmettere il virus inavvertitamente; tutto possono, posto che esse agiscono in nome della ‘guerra’ al nemico.

Per queste imprese il nemico non è un virus invisibile, la pandemia, ma un possibile modello di vita alternativo: il cui esito peggiore – per loro un incubo terribile – sarebbe un’economia svincolata dal consumo. Un esito che tentano di evitare ad ogni costo. Si impegnano a sborsare miliardi che tanto poi torneranno. L’importante non è salvare delle vite, ma il modello economico ultra-liberista; ognuno lo sa, ma alle banche giova questo modello. Perciò è conveniente attivare una strategia di incremento costante della paura: al fine di sottomettere quanti più possibile al sacro principio della crescita economica. I media ufficiali traboccano di argomenti sul tema, e gli economisti rinfrancano questo discorso: non si tratta di cambiare il modo di vita ma di riprendere un po’ alla volta quello di prima, con fermezza assoluta, non appena finito il confinamento. Il patron di Medef [la Confindustria di Francia] arriva al punto di forzare la ripresa di un lavoro mortale prima ancora che la crisi si concluda. I mezzi d’informazione non contemplano questa situazione, ma solamente quella che, sì, potrete tornare a consumare consumare consumare, tranquilli, intanto fate ciò che vi è detto di fare.

E noi, popolo obbediente, ci mascheriamo. Dietro queste pezze improvvisate affrontiamo senza obiezioni il nuovo scenario dell’abbandono dei servizi pubblici, del naufragio degli ospedali, della sofferenza degli operatori sanitari ormai santificati, quando non sono tre mesi che li avremmo gassati di lacrimogeni; e compiliamo sommessi le autocertificazioni per muoverci a comprare il pane, o la farina per farci il pane in casa, perché bisogna confinarsi meglio… facciamo, appunto, ciò che ci è detto di fare.

Senza dubbio bisogna passare per una certa situazione per superare il “picco” e intravedere un futuro libero dalla pandemia. Il confinamento, a seconda dei casi, rassicura o esaspera, ma in ogni caso gioca un ruolo singolare nelle nostre vite di consumatori, obbligandoci a concepire un’autonomia biologica di sussistenza: come in cucina, ad esempio. Stiamo riscoprendo i gesti ancestrali dell’economia domestica, quasi rurali. Chi ha un giardino è fortunato. Solo per questi il confinamento diviene un’occasione inattesa di trasformare quello spazio ornamentale in fabbisogno alimentare. In realtà, l’una cosa non esclude l’altra: un orto è un paesaggio. A prescindere dalla nostra situazione (di noi, passeggeri sulla Terra), siamo chiamati ad inventare un nuovo modo di vivere, uno che non rischi di crollare alla minima palpitazione di un virus.

Perciò la diversità delle culture e delle colture, quelle delle specie adattate a suoli e climi diversi nel mondo, la facoltà di rendersi autosufficienti sotto l’aspetto della produzione e della distribuzione alimentare da parte di ogni singola micro-regione, grazie ad un numero di conoscenze artigianali diverse; tutto ciò si presenta come un possibile e concreto cambio di prospettiva sul futuro. Ma tutto ciò implica l’abbandono della visione mondializzata degli scambi, dove è la “competizione” (la parola balbettata all’infinito) a permanere quale vera e propria arma di guerra, perché la guerra è proprio lì, e non soltanto nella lotta a un essere sconosciuto con le sembianze di un virus. Da questa competitività assurda e pericolosa sorge il mercato internazionale sfrenato, che fa circolare la soia o l’olio di palma da un angolo all’altro del pianeta, per ragioni dubbie e per nulla irrinunciabili, ma che portano profitto. Abbiamo mai calcolato il costo ecologico di importare una fragola dalla Spagna, una rosa dalla Colombia, un apparecchio, un laser, un brano di stoffa dalla Cina, di contro a quello di tutti i prodotti che possiamo produrre localmente?

La constatazione di questa assurda e pericolosa dipendenza rischia di certo di essere recuperata al discorso dei nazionalisti decerebrati, la cui ambizione ad un modello local-reazionario è mossa da un razzismo soggiacente. Ma non possiamo liberare quei malati dalla nevrosi dell’altro come nemico. Essi non hanno capito che viviamo nello spazio concluso del Giardino planetario, questa piccola biosfera, nuotando tutti insieme nel medesimo bagno che concede la vita. Sì, l’acqua che beviamo l’hanno già bevuta molte piante, animali e uomini prima di noi. È questo il nostro stato implicato dalla condivisione. Vale per i virus come per l’aria che respiriamo.

Bisogna riprendere in mano la calcolatrice. Se prendiamo atto dei costi della riparazione ecologica necessaria per sperare di vivere domani, comprendiamo anche il bisogno del cambio di modello di vita, ovvero di consumo, rivoltando la scala delle nostre aspirazioni. Non serve forzare il ‘povero’ a desiderare il SUV e dodici paia di sneakers, ma fargli prendere coscienza del luogo in cui vive, e che è il canto degli uccelli a darci un equilibrio, non quello dei tubi di scappamento lungo i marciapiedi obbligati del jogging.

Chissà che un giorno non dovremo ringraziare i microrganismi per averci aperto gli occhi.

Mi manca la città. Cartolina da Bologna

di Alvise Narduzzi (21.4.2020)

 

Cammino verso Piazza Maggiore; e mi scopro mosso da un’insolita curiosità di imboccare quelle vie per le quali, solitamente, a guidarmi bastano le gambe. È una domenica di quarantena, ma non hanno avvisato il Nettuno, che impettito sfoggia il suo bronzo restaurato di recente per un pubblico sparuto e disinteressato. Seduti sotto le Nereidi, i rider colorano la Piazzetta con le tonalità del rispettivo servizio di consegna. Attendono di rispondere a tutti gli ordini che l’isolamento sociale ha generato, e patiscono la spola di una volante lì attorno, come un avvoltoio sulla carogna.

Superato l’angolo di Palazzo D’Accursio, precisamente quello dove si staglia l’ombra del Nettuno che uno dei Segreti ritiene equivoca, mi fermo per fare una foto a Piazza Maggiore, immobile nella nudità che forse mai ha conosciuto fino ad ora. Prima di avere il tempo di essere insoddisfatto della foto, decido di rientrare, spinto dal perentorio: “Ehi, facciamo i turisti?”, gracchiato dalla volante in movimento. Mentre torno sui miei passi, non riesco a fare a meno di sorridere, pensando che finalmente, oltre ad un nuovo fascino alla Piazza, il distanziamento sociale potrebbe essere riuscito a dare un fine utile al Voltone del Podestà e al suo telefono senza fili.

Le foto sono per i miei. Sono increduli della desertificazione di una città che nel loro immaginario reputano cuore pulsante dell’aggregazione giovanile. Opinione di cui sono felicemente complice e artefice, poiché ho sempre venduto loro immagini al miele di Bologna – che ho imparato ad amare come casa mia, per quanto è viva. E mi manca, la città, per tutte le volte che di quella vitalità sono stato parte; ma anche per tutte le volte che, severa, mi ricordava quanto sbagliassi a non vivere nelle sue strade. Io gliele mando, le foto, ma non so come dir loro che La Grassa ormai ci sfama portando il cibo al piano, consegnandolo col braccio teso a sfiorare il crampo, nel rispetto della distanza ordinata; tantomeno che La Dotta è ormai costretta alla triste forma di precettrice virtuale. Non so nemmeno spiegare, beninteso, che stiamo centellinando i rapporti personali, tra sporadiche visite clandestine e incontri online che, saltando le strette di mano, esordiscono tutte con un inutile: “Come sta andando la quarantena?”.

Credo dirò loro, per convincere me stesso, che dopotutto Bologna è anche La Rossa. Fatto che conferma, almeno cromaticamente, l’analogia col cuore che ho spacciato così bene. Racconterò che rateizziamo i rapporti, ma tentando di non interrompere il battito, i processi di sistole e diastole del pulsare bolognese. Proprio sotto casa, davanti alla Finestrella, quando mi coglie la malinconia persino nel vedermi risparmiato il quotidiano slalom tra i cretini che fotografano una Venezia fittizia, lo capisco sul serio: mi manca la mia città.

Untori ed eroi. Cartolina da Como

Di Stefano Zanella (18.4.2020)

Le immagini, ammesso che le si voglia guardare, sono sotto gli occhi tutti. La differenza la fa la narrazione che le unisce in sequenza, l’ordine che si dà alle particelle luminose che le compongono, significati tremuli. Ma nessuno ci imporrà un’unica lettura dei segni.

L’altro giorno attraversavo via XX settembre in bici, di ritorno da alcune commissioni. Dalle piante che crescono ai bordi dei due marciapiedi, quei fiori che strappavo, per riportarli a mazzi a casa dei miei, venivano ormai scomposti e trasportati dalla mano del vento, si accumulavano, rosa, ai cigli della strada. Da lì la città deserta sembrava quanto mai l’orma antica di Cartagine, con le torri, le mura che smettono di crescere per quell’amore di Didone che avvolge di torpore i cantieri. Pensavo a questo romanticismo, una semplificazione a cui a volte si deve ricorrere, e alla necessità conseguente di decostruirlo, per poi polarizzarlo. Perché sia il romanticismo di una classe che lotta, e non quello di individui in quarantena. “Sono gli dei ad infonderci questo ardore, o ognuno, Eurialo, fa un dio delle sue voglie più buie?” diceva Niso al suo amico e amante. Anche gli eroi del mito si interrogano, vogliono svestirsi di un nome, “eroe”, messo lì per coprire troppi errori umani, e che è soprattutto nei loro corpi che scava il solco più profondo.

 

Amiamo anche leggere, studiare, fare sport in cortile, ma non basta. Non sarà un’attesa acritica, tenuta insieme dalla narrazione tossica di una lotta tra untori ed eroi.

Sulle piante dai fiori rosa si innestano già altre piante, sulle vie come via XX settembre si innestano già altre immagini, il racconto continua. Rinomineremo la città affinché la possa attraversare ogni identità. Perché non si rivolti più contro chi ritenuto debole, morte annunciata e giustificata dal narratore carnefice perché – pronunciato da labbra maldestre – ‘morte di eroe’.

Hola señora Arjelia. Cartolina da Salinas de Guaranda

di Anna Ferronato (17.4.2020)

Hola señora Arjelia,

È triste non poterci incontrare più come ogni martedì al mercato. Quando arrivavo al tuo banco di frutta e verdura, subito mi offrivi dos mandarinas, chiedendomi “In cosa la posso aiutare questa settimana?”. Adesso al tuo posto ci sono tre camion, con sopra degli sconosciuti a volto coperto, con fare sbrigativo (quanto è più lunga la coda!), che vendono frutta e verdura scadente. Altro che le tue papayas y granatillas, che ogni tanto me ne mettevi in borsa qualcuna in più!

Spero di rivederti presto, senza mascherine sul viso. In quell’occasione prossima ti abbraccerò per rendere più saldo il nostro reciproco impegno.

Con cariño,

Anna

Sto perdendo due città. Cartolina da Bruxelles

di Elia Cavarzan (17.4.2020)

Sto perdendo due città. Sono qui, ma è come essere anche dall’altra parte. In rue Joseph Coosemans, alle otto di ogni sera, la gente si affaccia alle finestre per applaudire il personale sanitario di Bruxelles. A quell’ora mi collego spesso ai notiziari italiani, per sentirmi un po’ più a casa. La cantilena quasi amabile del giornalista di turno mi rassicura, mentre condisco con sale e rosmarino una bistecca stopposa, che ho preso al supermercato da basso: quel santuario della socialità dei nostri giorni.

Gli applausi intanto si mischiano agli inutili bollettini di guerra che incalzano dal Bel Paese. Vivo in una doppia quarantena, fisica in Belgio e spirituale in Italia. A Pasqua le campane di Saint Albert mi hanno portato ai miei campanili, che si contendono tutto quello che giace tra Verona e Venezia: in un attimo ho rotto la quarantena in Belgio.

L’estate scorsa un mio collega romano, giornalista, da un’osteria sul lembo di colline che difende le Prealpi dall’avida pianura, guardando il panorama mi ha detto sorridendo: “Certo che il Veneto è solo campanili e capannoni!” Su queste due C si scontra la mia anima che vola a casa mia, che mi sembra intrappolata lì.

Quando mi sveglio sono le otto e mezzo ma gli applausi non sono ancora finiti. Non applaudo a mia volta, forse sono colpevole di apatia. Mi scopro in quella situazione eccezionale in cui vorrei dare la colpa a qualcuno, anche a me stesso, pur di spiegarmi come mai sono rinchiuso da due parti.

Me lo ricorda Bob Dylan in With God on Our Side: “That Jesus Christ was / Betrayed by a kiss / But I can’t think for you / You’ll have to decide / Whether Judas Iscariot / Had God on his side.”

Infine, decido, non è colpa di nessuno.

La fase antani

di Rinaldo Mattera
(da Grillodrome, 15.4.2020)

Fin qui l’azione del governo è sintetizzabile più o meno così: non abbiamo strutture sanitarie adeguate, non abbiamo idea di come combattere questa pandemia, gli esperti vanno bene (ma solo se dicono cose a noi favorevoli), si chiude tutto (tranne ciò che per Confindustria deve restare aperto), restate a casa che intanto ci pensiamo.

Il tempo è passato e il famoso modello Italia, mix di narrativa guerresca e nazional-popolare, la colpevolizzazione del singolo e la caccia continua al capro espiatorio, l’invito alla delazione e all’esposizione di furbetti e untori, sembra produrre ben poco rispetto alle aspettative. Senza guardare a paesi africani dove la polizia uccide direttamente i trasgressori per strada, a paesi semi-democratici sparsi per il globo, o al regime cinese, l’Italia potrebbe rappresentare l’anomalia europea per eccellenza.

Laddove in altri paesi europei, tranne la Spagna, la responsabilizzazione diretta del cittadino e la fiducia nelle istituzioni ha tendenzialmente prevalso, invitando le persone a distanziarsi e quindi a procedere nelle proprie attività rispettando i protocolli opportuni, in Italia il cittadino è stato trattato come un imbelle, incapace, sostanzialmente inetto, potenzialmente mentitore e deviante. La guerra di tutti contro tutti, pur di evitare l’impietosa analisi dei problemi sanitari, dell’emergenza dapprima taciuta e sottovalutata.

Non si spiega diversamente perché mandare in tv da Barbara D’Urso e su Rai3 gli elicotteri dei finanzieri che inseguono runner solitari, con scene da pessimo b-movie anni ’80. Non si spiegano migliaia di sanzioni irrogate spesso in maniera arrogante, proditoria, contro persone che avevano come unica colpa quella di provare a vivere, nonostante tutto. Nonostante i divieti, un funerale mafioso in pieno giorno, avvenuto nella stessa città dove il sindaco si è distinto per truci dirette facebook, al limite tra il ridicolo e il distopico.

Nonostante a livello medico sia consigliato fare attività fisica, per tenere il corpo in forma e non subire cali di anticorpi per via dello stress psico-fisico, semplicemente uscendo almeno una volta al giorno all’aria aperta, in Italia abbiamo chiuso i parchi e criminalizzato gli sportivi solitari, dando in pasto al pubblico ludibrio i furbetti della corsa, del portare il cane a spasso, ecc. Adesso si metteranno sotto accusa le istituzioni più esposte, si cercheranno capri espiatori tra i quadri intermedi, per dare in pasto al pubblico qualche testa illustre: il sistema, il potere centrale, nel frattempo, non si discute.

Non solo, si è demonizzato tout court lo stare all’aria aperta, grazie a media condiscendenti che hanno sparato titoli fuorvianti: “il virus è nell’aria”. Tutto questo dicendo che “non ci sono alternative”, con decreti speciali, dando ampi poteri discrezionali alle forze dell’ordine, simbolicamente equiparate ai medici, nel fuorviante discorso guerresco che produce concetti biopolitici da regime distopico.

Tutto questo, invocando la jella per Boris Johnson, per gli svedesi, per chiunque non la pensasse come il nostro santo uffizio della pandemia, che a furia di decantare il modello cinese ne ha preso solamente i tratti più oppressivi, dalla sorveglianza digitale alla repressione fisica.

In tutto ciò, Conte ha condotto una sua personale campagna elettorale, recuperando tutto quanto negli scorsi anni gli era stato sottratto (mediaticamente) da Salvini e Di Maio. Con le dirette facebook, la gestione dell’emergenza Covid ha trasformato le conferenze stampa in show propadandistici, senza domande e senza dialogo. La logica degli annunci leakati, il senso di attesa per la nuova diretta (attesa che qualche volta è servita per correggere il decreto secondo i dettami degli industriali), infine la delega tecnocratica ai fantomatici esperti. La debolezza di questo governo è tutta qui e queste misure liberticide potrebbero spianare la strada a derive dispotiche: meno male che Salvini al momento non era ministro dell’interno, ma in futuro?

Quello che emerge è la volontà di imporre nuovi paletti, in cambio di un po’ di libertà: la app di stato, con codici QR da esibire alle forze di polizia (come in Cina), potrebbero essere il viatico verso il modello del social credit card, spostando geostrategicamente l’Italia verso il modello chiuso e centralizzato di internet, spalleggiato da russi e cinesi. Perché ancora il governo si sta preoccupando di qr code per sostituire l’autocertificazione? Probabilmente per spostare in alto l’asticella del controllo sociale, che tornerà utile per gestire le future tensioni sociali derivanti da questa grande crisi e gettare le basi per uno stato autoritario, che maschera gli strumenti del controllo sotto la retorica del “non c’è alternativa, è per il vostro bene”.

Le curve di contagio nei vari paesi europei sono piuttosto simili, l’Italia ha il più alto tasso di mortalità e si vanta del proprio modello di contenimento: mentre si inaugurano task force per combattere le bufale sul web, governo e media mainstream sono impegnati nel diffondere fake news di stato, con tutti i mezzi e le forze possibili.

Quest’invenzione della realtà segna un’era in cui la post-verità è già uno strumento di soft-power per disciplinare i cittadini: le tecnologie del dominio si affacciano agli anni ’20 del duemila, ugualmente a quanto accadde negli anni venti del Novecento. Il resto è ancora da scrivere, si spera.

“Médecine partout, justice nulle part”. Intervista a Alain Damasio

“Médecine partout, justice nulle part”.
Intervista a Alain Damasio

Traduzione di Giacomo Confortin (da Libération, 31.3.2020)

Sulle colonne di “Libération” del 31 marzo scorso, a firma di Nicolas Celnik, veniva pubblicata l’intervista al noto scrittore Alain Damasio, di cui i lettori di fantascienza avevano atteso ben quindici anni l’uscita del nuovo romanzo, Les Furtifs (La Volte, 2019), dove questi racconta una prossima società del controllo, che ora gli pare essere scesa inesorabile al presente. Alla domanda se sia desiderabile questa imposizione di disciplina ai cittadini, visti i rischi che corre il sistema sanitario mondiale, Damasio risponde:
“È utile senza dubbio. Ma indispensabile? Assolutamente no. E voglio rispondere con un’altra domanda: le leggi antiterrorismo che con Sarkozy hanno inaugurato una incessante, drastica regressione delle libertà personali (di comunicare senza essere tracciati, di spostarsi, di manifestare, di esprimere opinioni ritenute pericolose, etc.), in nome di uno stato d’emergenza supposto, queste misure sono state nel tempo abolite? Almeno riviste? Diciamo contenute? Niente affatto.”

Il problema che viene affrontato per rapide, piccole provocazioni è quello che si trova nella citazione da Sorvegliare e punire evocata repentina da Damasio: “La peste come forma di disordine ad un tempo reale e immaginario ha per correlativo sia medico sia politico la disciplina”. Sembra a Damasio che questa misura di contenimento sia piuttosto autoritaria che sanitaria?
“Quello che percepisco, molto semplicemente, come cittadino, è che la medicina non è, o non dovrebbe essere, un lavoro di polizia. (…) In Francia non abbiamo saputo trovare e isolare i contagiati, dunque isoliamo tutti, in massa, oplà, circolare! Ah, no… non circolate affatto, restate a casa, il tempo di trovare delle mascherine, di rendere operative le strutture per fare i test e di ripristinare i posti letto che abbiamo abbattuto per ignominia di rendiconto. (…) L’urgenza o il panico non giustificano niente e nessuno. Dovrebbero invece richiamare alla discrezione, alla cautela, alla sobrietà giuridica. (…) Inscenare l’ansia e stimolarla con un accumulo di statistiche parziali, come per fare leva su quell’effetto tanto dilagante che è la paura, e diffonderla a ciclo continuo attraverso un’oscena inflazione mediatica, tutto ciò è una classica strategia per far avallare la stretta securitaria.”

Per adeguarsi alla lingua giornalistica, si può dire che Damasio non usi mezzi termini quando parla dei Gilets jaunes. Il “côté bo-bo”, ovvero lo spirito ibrido borghese-bohémien che insidia i manifestanti francesi delle “manifestazioni sagge”, non serve più a nulla, aveva detto altrove. Riferendosi a quelli:
“Dopo aver picchiato, ferito, mutilato migliaia di persone nel 2019, nel 2020 la polizia non ha il diritto di decidere chi può uscire, muoversi, fino a dove e come farlo. Essa non può essere il braccio armato di una massiva incompetenza sanitaria. Sta dunque a noi di organizzarci, di attivarci in reti solidali, di sostenere chi ci cura, di decidere cosa sarà del nostro domani.”

Verso l’epilogo, ricordando che secondo Serge Lehman la fantascienza è l’arte di reificare la metafora, Damasio si addentra nella realtà con le sue armi di scrittore, impegnato nella lotta al Digitale – l’altra magna quaestio del nostro tempo in quarantena – ovvero della schiavitù sotto il Digitus. Se tanto poco era occorso a Brunelleschi per liberare il corpo dello spettatore, una lieve torsione del Cristo in croce, per far sì che la scultura creasse uno spazio da percorrere, altrettanto poco occorre a chi adora le catene intelligenti del cellulare per tornare all’unica visione frontale, allo spazio distrutto ma lusinghiero, quello che dal bastone fa pendere davanti i nostri occhi il capitalismo globalizzato.
“Misuriamo male talvolta fino a che punto quei racconti fantascientifici di liberazione mediante il mondo virtuale dipendano, in realtà, da un desiderio estremamente antico e potente, quanto i Sapiens forse: il desiderio di sovvertire i nostri quadri ontologici, la nostra condizione ‘piattamente’ umana. Una sorta di desiderio di essere Dio. Il virtuale che è offerto dal sistema di interconnessione ci scarcera dalle nostre vite attuali. Non siete più condannati al qui ed ora, hic et nunc: potete essere everywhere everytime: ovunque nel tempo. Non vi è assegnato un corpo solo coi suoi limiti – la sofferenza, la lentezza, la fatica, l’invecchiamento, la morte: potete morire e rinascere, be respawn, moltiplicarvi, più forti, più rapidi, accessoriati, transumani.”

Nicolas Celnik, Alain Damasio: La polizia non dev’essere il braccio armato di una massiva incompetenza sanitaria
Libération 
online, 31.3.2020.