di Dario Fiorentino
(19.5.2020)
Per mesi siamo stati in casa. Assediati da un virus sconosciuto, in attesa. In attesa di comprendere, sapere, tranquillizzarci. Solo che forse abbiamo prodotto l’esatto contrario. Ciò che il virus ci ha costretti a cercare è stata una qualche forma di certezza, quella soglia di sicurezza che ci permettesse di cogliere ciò che accadeva, come accadeva e perché accadeva. È quasi fisiologico; è utile per sopravvivere, biologicamente quanto socialmente. Da qui l’inflazione mediatica e non solo di testi, analisi, considerazioni, ricostruzioni storiche, previsioni, profezie, invettive sulla pandemia, sull’operato dei governi, sull’economia, sulla socialità e così via.
Si è letto di tutto e di più in questi mesi e non è qui questione di dare un giudizio sul contenuto di scritti o di prendere posizione su una visione delle cose piuttosto che su un’altra; è la forma globale della vicenda ad assumere contorni inediti nonché grandiosi, trattandosi della prima pandemia in epoca social. Inquietante la parcellizzazione, l’eterogeneità e la molecolarità dei contributi che si sono succeduti per mesi quotidianamente e a ritmi ossessivi.
Era come se si cercasse di svelare l’antico mistero del Tao; solo che, come afferma la scuola Rinzai, se una persona cerca il Tao, quella persona perde il Tao. In questi mesi è stato come cercare il Tao senza ovviamente sapere cosa cercare, senza la benché minima convergenza d’opinione o di intenti sul punto d’approdo di tutte queste fatiche intellettuali. Non che non fosse o non sia legittimo. Ma ciò non poteva che accrescere l’incertezza anziché inquadrare certezze. Ci siamo sempre più impelagati nelle sabbie mobili che ormai da qualche tempo stanno risucchiando il pensiero delle nostre società occidentali; l’intero problema filosofico ed epistemologico di come pensare il pensiero ha raggiunto risultati prossimi al parossismo. Si parla addirittura di danni psicologici permanenti.
Elaboriamo parole su parole, in una forbice temporale che oblitera continuamente il presente e che tende in maniera assillante a manipolare e rimanipolare il passato per agganciarlo direttamente al futuro, tra i poli del “che cosa può essere andato storto?” al “che ne sarà di noi?”
E d’altronde non poteva essere diversamente in una società portata a verbalizzare l’esperienza in una continua e indefinita aspirazione al controllo che permetta di fare prognosi certe in grado di rassicurarci il più possibile. Alan Watts ce lo ha illustrato in pagine meravigliose: non riusciamo ad usare il pensiero filosofico come strumento di trasformazione, ma soltanto come arnese di verbalizzazione. Costruiamo sapere soltanto per controllare sia il soggetto conoscente che l’ambiente che lo ingloba, anche quando questo sapere ci scoppia tra le mani. Blindati nell’aporia della ragione, balliamo la danza del controllare il controllore per controllare il controllabile! Ma non ci riusciamo. Cadiamo a pezzi nella velocità siderale della circolarità del processo di costruzione della conoscenza: più conosciamo, direbbe Florenskij, più aumenta l’inconoscibile.
Tanto più grande diventa l’edificio della conoscenza sul nostro immaginario piano logico, tanto più aumenta quel cono d’ombra proiettato dal nostro edificio, il quale altro non rappresenta se non tutto ciò che non possiamo apprendere attraverso le nostre macchine logiche. Formidabili per certi versi, ma insufficienti per altri.
Per noi conoscere equivale a controllare; una blasfemia per le antiche culture orientali. Pretendiamo di capire come inserire in maniera spasmodica parole e simboli all’interno di un ordine coerente e possibilmente non contraddittorio. Cerchiamo di governare e prevedere gli sviluppi dell’accadere.
Ma ogni tanto qualche evento ci ricorda del paradosso del controllo che fa perdere il controllo.
Il risultato è la confusione commista all’aridità del pensiero; non appena iniziamo solamente a sospettare che la distinzione tra noi e l’ambiente che ci circonda è puramente artificiale, convenzionale, ci ricordiamo del celebre e sempiterno “Quis custodiet custodes?”.
Questione ansiogena, tanto più se si persevera nel voler credere che possa esistere un Io, privato o sociale, in grado di poter controllare l’ambiente. Illusoria la separazione, assurda la conoscenza nella sua accezione di controllo. Ci vorrebbe un “rilassamento dinamico”, una fluidità e creatività differenti per liberarci dal circolo vizioso del controllo, del controllore e del controllabile. La nostra cultura sembra condannata disperatamente a restare impantanata in modelli comportamentali e auto-organizzativi sempre più complessi e insondabili. Si diceva che sarebbe cambiato tutto: non siamo cambiati nemmeno noi, figurarsi l’ambiente sul quale retroagiamo mentre da questo siamo “agiti”. Per ora siamo rimasti solo a casa.
I nostri congegni logici non tollerano il paradosso, invece di utilizzarlo proficuamente lo rifuggiamo. Da qui l’incapacità di valorizzare il senso dell’incertezza; la nostra concezione ingegneristica della società trova aberrante dare senso al non senso, eppure lo facciamo tutti i giorni senza accorgercene. Lo facciamo malgrado il fatto che tutta la nostra ingegneria sociale tenda a voler sempre imporre un senso alle cose; la mancanza di senso equivarrebbe alla nevrosi ci insegna la psicoterapia. Eppure, tutto ciò che è mortale, tutto ciò che è destinato a perire non è che un simbolo, diceva Goethe, ma se questo simbolo non ci soddisfa, non ci dà un senso, siamo portati ad esasperarlo, a voler a tutti costi moltiplicare gli enti e i significati, come se le cose non significassero unicamente se stesse, anche se noi non possiamo cogliere l’insondabilità di questa tautologia.
Nondimeno, questi mesi possono insegnare qualcosa sul non senso e su come esso abbia senso. Non riusciamo a sorprenderci perché diamo molte cose per scontate ed acquisite; innanzi ad un evento catastrofico, sia esso economico, sociale, politico, medico o tutto insieme, siamo portati a comportarci come una macchina triviale direbbero i cibernetici: diventiamo degli accumulatori di tempo (così aveva definito l’uomo Korzybski, un time-binder) davanti all’evento catastrofico o non immediatamente comprensibile. Utilizziamo il tempo per scomporre, comporre, analizzare, prevedere, attribuire scopi e funzioni; ciò potrebbe essere utile parzialmente se solo fossimo consapevoli che alla fine non raggiungeremmo alcuno scopo. Forziamo semplicemente l’accadere per prevedere l’illusione di ciò che consideriamo certo. Ma se qualcosa si può apprendere lo si può fare solo dall’incerto: non possiamo apprendere da ciò che è certo. L’apprendimento è una proprietà emergente nel processo d’interazione tra noi e l’incerto, cioè l’ambiente, vale a dire l’assolutamente indeterminato.
Pascal scriveva:
“Noi vaghiamo in un vasto mare, sospinti da un estremo all’altro, sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine al quale pensiamo di ormeggiarci e di fissarci vacilla e ci lascia. Nulla si ferma per noi. È questo lo stato che ci è naturale e che, tuttavia, è più contrario alle nostre inclinazioni. Noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un’ultima base sicura per edificare una torre che si innalzi all’infinito, ma ogni nostro fondamento scricchiola e la terra si apre fino agli abissi”.
Il virus non ci ha fatto scricchiolare la terra sotto i piedi; questa scricchiolava già, il virus ce lo ha mostrato in maniera un po’ più brutale e disordinata. Che si tratti dei principi matematici, degli enunciati linguistici o delle pratiche del quotidiano, cerchiamo sempre un fondamento condiviso e da condividere; lo facciamo per aggrapparci al certo e siamo convinti che la scienza, la cultura, la società, le task force tecniche, la vita stessa possano fornircelo. La replica della Storia è stata dura, ma non inutile, forse.
Sicuramente noi condividiamo degli aspetti di vita abitudinari e routinizzati, ciò accade al livello istituzionale o burocratico; ma non appena l’ambiente “pandemico” si è mostrato in tutto il suo potenziale minaccioso, l’eccedenza che si è creata ha comportato un tale scarto di complessità per i nostri sistemi cognitivi che ancora adesso fatichiamo a trovare nomi o norme per riprendere ad auto-regolarci e rimettere il mondo ad un formato accessibile e immediatamente codificabile.
Il bombardamento informativo e comunicativo di queste settimane ha scosso non poco la nostra complessità interna, fatta dell’agglomerato consueto di linguaggio, cultura, esperienza, operazioni volte a produrre continuamente senso. L’incertezza è la misura del cortocircuito logico tra ciò che possiamo sopportare cognitivamente e il diluvio di comunicazioni contraddittorie o vaghe che abbiamo subito a ritmi vertiginosi in questi giorni; un bombardamento di dati che non ha la benché minima coerenza e che ha fatto in modo che il linguaggio, lo strumento col quale solitamente nominiamo e creiamo il mondo, ci tenesse immobilizzati in una sorta di cantiere cognitivo permanente; cantiere nel quale le “forme di vita” come avrebbe detto Wittgenstein, i nostri giacigli di naturalezza e spontaneità sono stati messi in stand-by. Gli strati solidificati delle nostre certezze penetrati dalla lava improvvisa della comunicazione costruita attorno al virus.
Si scopre che tutto quanto era prima, era solo dato, presupposto, infondato; poco importa, per noi era certo e quindi fondante! Ci offriva le premesse, gli orientamenti per auto-regolarci, ci forniva le informazioni sulle quali calibrare ogni nostra azione, comunicazione, osservazione, il pilota occulto della nostra stessa esistenza.
Ma una volta a casa, messi all’angolo da una entità invisibile, ma operante e forse anche alquanto efficace, ci siamo sentiti sguarniti dei nostri formidabili riduttori di complessità, il potere (supposto) di agire e la conoscenza. Non abbiamo riconosciuto l’incertezza come connaturata all’esistenza: ci siamo chiesti perché venisse meno la certezza, come se fosse necessaria e ontologicamente calata dall’alto. Crollati gli stampi sociali utilizzati in ogni sfera della vita, dal caffè al bar fino alla celebrazione della santa messa, solo qualche voce timida ha colto che ciò che davamo per scontato che fosse scontato, come avrebbe detto Luhmann, non lo era affatto. Un senso è evaporato, non resta che passare all’altro.
Ma si è confuso il senso con il significato; quando invece il senso è qualcosa di più, è piuttosto orientamento, esso rende possibile, entro una data gamma di possibilità, l’operare del significato. Il senso aggancia un ponte tra il soggetto e il mondo, è un fluido che permea strutture e codici, la placenta che rende possibili e regolabili le relazioni sociali, quindi comunicative; il sistema sociale, sempre mutuando Luhmann, è fondato sulla base del senso.
Pertiene all’eccedenza ma non proviene da un “fuori” inesistente; è immanente ai flussi della comunicazione, ed è possibile solo grazie alla indeterminatezza, all’incertezza. Il senso ci fornisce ridondanza ed eccesso di indicazioni e di rinvii, costringendoci a procedere in maniera selettiva, perché certo e incerto sono due facce della stessa medaglia, differenti gradi di determinazione della realtà, coesistono come lo Yin e lo Yang. Anche se il senso è fluido si cristallizza; diventa resistente, si irrigidisce e deve sempre essere rigenerato come riflesso creativo del cambiamento anti-routinario. Morin diceva che la società dell’incertezza è una possibilità, la possibilità di scommettere sull’improbabile; l’incertezza ci spaventa, ma è l’unico luogo, in senso figurato, in cui risieda il possibile. Il non sapere, forse, è il Tao da cercare anziché rifuggirlo.
La lezione del virus potrebbe essere di ricordarci l’universo dei possibili che oltrepassa il senso cristallizzato delle specificazioni sociali e culturali di un dato momento, aprendo alle indefinite possibilità dell’accadere. Grazie all’incertezza altri mondi, altre possibilità sono praticabili; come pure altre catastrofi, bene inteso.
È in momenti come questi, che costruire un senso “altro”, in grado di scrutare senza paura nel fondale dell’incertezza, può permettere di inventare altri simboli che ci connettano al mondo e altri modi di concepire le cose. Ma tutto ha un prezzo: e in questo caso, come la saggezza induista ripresa dalla scuola di Palo Alto insegna, bisognerà guardare in faccia la paura per trasformarla in coraggio, sublimarla e condurla all’apice, per farla collassare su stessa. E ciò si può fare solo se si abbandona la pretesa del controllo. Quando la soglia della paura arriva al minimo, forse si intuisce il Tao. E si sarà grati e non spaventati nel chiedersi: che cosa non sappiamo oggi?