DAD or DEAD? Dall’amor de lonh alla didattica de lonh

di Francesco Gallina
(1.6.2020)

È successo. È successo che un virus ha portato la scuola liquida al suo ultimo stadio evolutivo. Lo stadio più avanzato. Doveva succedere. Era inscritto teleologicamente da qualche parte: non l’avvento del virus, no, ma l’ingiunzione della didattica a distanza quale metodo pervasivo del fare scuola. Era predestinato nell’idea di società liquida, che equivale a dire annichilimento delle certezze, esaltazione della confusione, sacra religione della precarizzazione, eternizzazione della crisi, rimozione dei corpi. Corpi liquidi, per l’appunto, senza meta. Corpi fantasmatici. Ma la scuola è una forma di artigianato, è un fare concreto, non liquido: ché con i liquidi si “riempiono” solo gli imbuti. E soprattutto è un fare in presenza, fatto di corpi e di pensiero, esso stesso corpo dotato di un suo peso specifico che si nutre di esperienze vive, vivificanti.

È successo che si è accarezzato, e lo si accarezza tuttora da parte di molti, il sogno visionario (una distopia, a dire il vero) di trasformare una pandemia in un ripensamento radicale dello statuto ontologico della didattica da esportare e applicare al di là dei confini della pandemia stessa, iniettandolo a forza nella futura, prossima, quotidianità della trasmissione del sapere. Non dunque una fase di passaggio, non solo una meditazione ponderata su di un’auspicabile compenetrazione fra didattica in presenza e didattica a distanza, ma una vera e propria sottomissione al diktat distanziatico che si traduce, poi, concretamente, nella produzione dei braccialetti anticovid e nella configurazione dell’ambiente classe in boxes, distanziati posteggi, che fanno anche rima con ‘parcheggi’. Ma l’aula è tutto fuorché un parcheggio. Chi vi lavora sa che l’aula è un laboratorio didattico perenne, un microcosmo in cui tutto si tiene, dalla gestione delle pareti alla disposizione dei banchi così come di ogni altro elemento, assetto sempre funzionale a garantire quell’efficienza e quell’inclusività che la connaturata parcellizzazione della DAD scarnifica e sacrifica. Pratica pedagogica potenzialmente degenerante per la crescita e lo sviluppo cognitivo degli alunni se usata a sproposito e in modo “abusivo”, la DAD nella sua forma totalizzante è il vessillo di una scuola dimezzata, come il visconte calviniano. Così come una scuola imbacuccata nelle mascherine, negli elmi e nella dittatura utopica delle distanze che, fra l’altro, inibiscono il gioco (quello concreto, non la gamification), importante stimolatore di processi di apprendimento.

È successo che la pandemia, come ogni “buona” pandemia che si rispetti (Boccaccio ci sta leggendo, e ci giudica dall’alto), ha slatentizzato desideri già in fermento e ha estrapolato dal suo cappello a cilindro interpretazioni deformate e deformanti della realtà, e dunque della scuola, che della realtà è specchio e cartina tornasole.

È successo che si sia sfoderata la retorica che vorrebbe che da una crisi nasca per forza qualcosa di buono, che in una situazione catastrofica quale quella causata dal Covid19 possa nascondersi una straordinaria opportunità di rivoluzione, quando in realtà si tratta – per usare le parole di Luciano Canfora (treccani.it, 13.5. 2020) – «di un disagio del quale liberarsi quanto prima, mentre c’è chi invece teorizza che si sia aperta una prateria di cose meravigliose». Ed è successo che ci si è messa di traverso anche la virologia in salsa massmediatica, che ha mandato in tilt l’Italia intera, infiltrando terrore in ogni poro, al suono di “Lo dice la Scienza” (ecco, appunto, che cosa dice? che non s’è mica ancora capito). È vero: le crisi non possono e non devono essere sprecate. E proprio perché la parola ‘crisi’ implica etimologicamente una decisione, una scelta, è bene che questa miri a un vero beneficio.

È successo che si sia passati dal provenzale amor de lonh alla didattica de lonh. Che se il fare scuola in presenza è una eccezionale forma di erotica che si fonda sulla buona coltivazione dei saperi e delle intelligenze, la didattica a distanza è esattamente il suo opposto, fatto di assenza e ricerca inappagata dei corpi e dei loro pensieri, schiacciati e appiattiti come lo sono gli schermi dai quali traspaiono. Non solo la parola assume la consistenza del flatus vocis, ma si perde e si banalizza con essa la prossemica, la cinesica, l’oggettemica, persino la vestemica. Si perde di vista la vita: DAD or DEAD? This is the question.

È successo che l’ultimo grado della scuola liquida costituisse anche l’integrale infrazione degli spazi, dei limiti e dei ruoli. Mai era successo nella Storia che gli alunni entrassero nelle case dei docenti, e viceversa. E mai era successo che i docenti non potessero più vedere in molti casi i volti dei loro alunni, le loro reazioni, le loro voci o per questioni di privacy o per questioni… altre. Mai era successo che la scuola si riducesse a una chat, a un link, a una conference call, a un conglomerato di pixel. Mai era successo che la scuola divenisse un fantasma, nonostante i compiti sulla bacheca, i moduli di Google, i video su Youtube.

È successo, infine, che un virus ha cambiato il volto della scuola – sembra – in modo decisivo varcando il perimetro della fase emergenziale, che ha preso le forme di una generalizzata ‘prova generale’ in vista di qualcosa che è altro rispetto all’emergenza. Sembra che lo strumento tecnologico, fondamentale se usato cum granu salis, abbia soppiantato con successo le relazioni complesse della scuola della Costituzione, in vista di una scuola settembrina che su carta pare più un incubo che una scuola (che ne sarà, ad esempio, dei laboratori professionalizzanti?). Il virus è diventato per alcuni un elettrostimolatore, l’occasione aurea per dare finalmente corpo a una nuova scuola che corpo, però, non ha.

Non è così bello e stimolante

di M. G.
(1.6.2020)

Sono la mamma di una bambina di sette anni, che frequenta la seconda elementare: sono impiegata nell’ufficio di un’azienda, so usare un pc e ne possiedo due (uno privato e uno aziendale), a casa abbiamo la fibra. È questa, incredibilmente, una situazione ottimale rispetto a tante altre. Inoltre, al momento della chiusura delle scuole, stavo trascorrendo a casa gli ultimi mesi di maternità.

La mia bambina ha affrontato con una forza ed uno spirito di adattamento incredibili questa situazione nuova e complessa fatta dapprima di schede da stampare, completare ed incollare sul quaderno, che però nessun insegnante vedeva e valutava, poi di esercizi di ripasso sul quaderno o sul libro che, di nuovo, nessuno poteva vedere, correggere, apprezzare, valutare. Sono quindi iniziati brevi video di spiegazione di nuovi argomenti: 5-7 minuti in media, alle volte 3 minuti, alle volte 11.

I video sono rassicuranti: si sente la voce della maestra, si vedono i libri in versione digitale; alcune maestre fanno lo sforzo di mostrarsi in video, rimanendo presenti nel piccolo riquadro in basso a destra del monitor. Ci sono gli esercizi interattivi, le lezioni da ricopiare sui quaderni, le verifiche da eseguire online e spedire via mail.

E poi c’è l’entusiasmo per la scuola e tutte quelle bellissime cose nuove da imparare. Entusiasmo che, dopo poche settimane, inizia a venire pian piano meno. Nei video, le voci delle maestre guidano i bambini alla scoperta di qualcosa di nuovo ogni giorno ma la mia è una bambina di sette anni che, come i suoi compagni, ama la scuola, ama viverla, ama stare in classe e alzare la mano per intervenire mentre la maestra spiega. E chiedere alla mamma non è così bello e stimolante. Allora cambia qualcosa: ricopiare le lezioni sul quaderno non è più così entusiasmante e anche le video-lezioni perdono un bel po’ di fascino.

Per fortuna arrivano le video-conferenze: così vediamo le maestre, alcuni compagni (5 o 6 bambini per volta), apri e chiudi il microfono, “mamma, faccio io!”, “mamma è stato bello, quando lo rifacciamo?”. Però vedo l’entusiasmo diminuire lo stesso poco alla volta ogni giorno.

Ecco, il computer rimane sempre una bella novità e allora mi accorgo che se mi allontano lei si sente grande: completa gli esercizi interattivi e li invia alla maestra da sola, controlla i nuovi e vecchi compiti sul registro elettronico. Dai, faccio uno sforzo (per me adesso lo è) e la lascio fare da sola, così si sente più responsabilizzata e proviamo a dare una svolta a questo momento di stallo. È strano vederla lì seduta da sola, mi sembra cresciuta così in fretta. Forse è anche più alta.

Sono la mamma di una bambina di sette anni e di un bambino di otto mesi. Una bambina ADHD che frequenta online la seconda elementare da fine febbraio.
Sono stata ammalata per quasi due mesi e altrettanto, con tutta la famiglia, sono rimasta in isolamento, anche quando, finalmente, si sarebbero potuti rivedere i familiari.

Siamo un po’ in ritardo sulla tabella di marcia del registro elettronico, sfugge ancora qualche tabellina, e non è facile ricordare ciò che la DAD ha cercato di trasmettere. Proviamo ad alimentare ogni giorno, non senza fatica, l’entusiasmo per le cose nuove, aggrappandoci alla voce rassicurante delle maestre, ai visi dei pochi compagni durante le video-conferenze e a quel pc da usare in autonomia per sentirsi, forse, troppo grandi.

Coronavirus: “Trattare una malattia come una guerra è un modo per renderci più docili ed ubbidienti”

di Michela Ponzani
(da Controradio, 20.4.2020)

Domenico Guarino Questa cosa sta dentro a una certa narrazione dell’epidemia con toni bellici e patriottardi – la narrazione, come sapete, “siamo in guerra contro il virus” che probabilmente spiana la strada a questo tipo di letture politicizzate. Buonasera e grazie a Michela Ponziani, storica, scrittrice e conduttrice televisiva. Buonasera, grazie di essere con noi.

Michela Ponzani Buonasera, salve a tutti.

DG Lei ha scritto un post molto interessante in cui tematizza questa narrazione del “siamo in guerra” che è stata portata avanti.

MP Sì. Francamente trovo abbastanza insopportabile questa narrazione bellica che diversi commentatori, ma anche la politica, stanno utilizzando in questo periodo, senza peraltro discutere di cosa sia realmente questa emergenza sanitaria che rischia, purtroppo, di diventare anche un emergenza economica ed è già un emergenza sociale.
Perché se è vero che molte persone hanno perso il lavoro e non lo ritroveranno dopo la fine del lockdown, e che molte donne si trovano fra l’altro costrette ad abbandonare il lavoro perché le scuole non riaprono e devono badare ai figli, trovo che non ci sia una strategia politica per far fronte a questo clima di emergenza.
Trovo insopportabile questa retorica patriottarda, come lei l’ha definita, perché i due fatti non c’entrano assolutamente niente l’uno con l’altro. Non c’è dubbio che stare a casa davanti alla televisione e utilizzare i mezzi tecnologici per comunicare con gli altri sia ben diverso che stare in un rifugio antiaereo ad aspettare i bombardamenti o aspettare che una lettera dal fronte ti dica che un tuo congiunto è caduto. E poi bisogna considerare anche i numeri, i dati: stiamo parlando di una guerra, come quella del secondo conflitto mondiale, che ha avuto milioni di morti.
Quindi credo che questa retorica abbia un po’ un senso: quello di voler compattare la nazione in un momento di particolare difficoltà per far passare alcuni provvedimenti restrittivi delle libertà civili – delle nostre libertà – in maniera tutto sommato indolore. Quindi credo che ci sia un senso dietro questa retorica anche se poi ci sono delle persone che la usano in maniera impropria, come è stato per esempio l’altra sera con Domenico Arcuri, il commissario straordinario per l’emergenza del coronavirus, che commentando il numero dei morti a Milano ha detto che Milano in questo clima di emergenza ha avuto più morti che durante tutta la seconda guerra mondiale. Mi sembra francamente un paragone senza […]

DG Che poi è strana questa cosa perché si dice sempre “bisogna far parlare gli esperti di una determinata materia”: Arcuri va ad invadere un campo che sicuramente non padroneggia e lo fa da un pulpito importante, fondamentale.

MP È interessante però che lo faccia, cioè perché si usa questa retorica di guerra? Veramente abbiamo bisogno per dare un volto al male, ogni volta, di ricorrere alla guerra? È interessante capire anche questo aspetto. Forse per elaborare il trauma, il vissuto traumatico che stiamo affrontando, abbiamo bisogno di riferirci alla guerra? Io non credo che gli italiani abbiano bisogno di questo, credo che abbiano bisogno di risposte concrete.
Quindi credo che tutta questa retorica serva un po’ a nascondere il vuoto, l’assenza di una progettualità politica per affrontare l’emergenza e anche quello che verrà dopo.

DG Puntando sulla sua grande competenza di storica che conosco e ho avuto modo di apprezzare, e anche sulla sua capacità di analisi politica, c’è un’altra lettura che è passata: la resistenza nostra dello stare a casa, quindi noi siamo gli eroi dello stare a casa come gli eroi della liberazione furono quelli che lottarono contro il fascismo. Anche questa è una retorica che si è molto spesa. È proprio così?

MP È una retorica che viene utilizzata però c’è anche l’altra faccia perché, come lei ha citato all’inizio di questa nostra conversazione, puntualmente ogni anno si riapre la polemica sul 25 aprile. Quindi l’Italia intera combattente che sta appunto affrontando questa nuova resistenza contro il coronavirus decontestualizzando completamente quella che è stata la scelta antifascista partigiana negli anni di guerra, e poi dall’altro lato invece richiamare continuamente ad uno svuotamento di senso del 25 aprile, addirittura richiamandosi alla canzone del Piave che non c’entra assolutamente nulla con il periodo del secondo conflitto mondiale e con il periodo della guerra partigiana, e poi questa polemica che ogni volta riprende per togliere il senso a quello che fu veramente uno sforzo, una lotta collettiva e anche politica per liberare l’Italia dal fascismo oltre che dall’occupante tedesco.
Mi pare che questi due aspetti vadano di pari passo e appartengano un po’ a quella memoria conflittuale, quella contestazione di legittimità e di senso della resistenza che da sempre caratterizza il nostro dibattito pubblico. Mi pare che ci sia ancora oggi una parte dell’opinione pubblica e della politica che non vuole proprio riconoscersi in quei valori dell’antifascismo e della lotta partigiana. Ecco perché si riaprono puntualmente queste polemiche che poi cadono nel dimenticatoio ogni volta, però tendono comunque ad avvelenare i pozzi, come se ne avessimo bisogno in questo momento.

DG Grazie Michela Ponziani, buona serata e buon lavoro.

“Ma se non ha niente indosso!” – disse una bambina

di Tristana Dini
(da Effimera. Critica e sovversione del presente, 9.4.2020)

Mi è difficile scrivere. Difficile usare parole che non feriscano qualcuna o qualcuno, e trovare parole che non siano inutili. In questi giorni si sono contrapposti morti a morti, vite degne a vite meno degne. Mentre scrivo desidero tenere conto – oltre che delle persone che sono morte per il covid 19 – di tutti gli uomini e le donne per i quali il discorso secondo cui la malattia colpisce “solo” chi è anziano o ha altre patologie o è immunodepresso è stato ad ogni passaggio televisivo, ad ogni titolo letto su internet, una coltellata. Sentire di essere un numero dentro una statistica e che quel numero può essere una condanna a morte suona terribile. Sentire che la società in cui vivi può decidere che la tua vita sia sacrificabile rispetto a quella di qualcun altro è orribile. Pensare questo dei propri cari non lo è di meno, anzi.

Né posso certamente contrapporre morti a morti, allora vorrei provare ad “aggiungerli”, non per arrivare ad una somma, ma per allargare la percezione della vulnerabilità, per andare fino in fondo al giusto orrore per la sacrificabilità di alcuni, pochi o molti che siano. Insegno da due anni in un ospedale oncologico e se c’è qualcosa che ho imparato lì è l’importanza di ogni singola persona, di ogni ragazza e di ogni ragazzo, di ogni bambina e di ogni bambino,  di ogni singola vita. Sto imparando lì l’importanza di “come” si vive con la malattia, di “come” si può guarire e tornare a vivere, ma anche – ahimè – di “come” si muore. Allora per non contrapporre morti a morti bisogna tenere “conto” della vulnerabilità di ogni singolo cercando di non lasciare fuori nessuno.

Ma appena metto al centro questa vulnerabilità “allargata” in tutte le sue forme, appena ne provo ad ampliare la percezione, mi fa male pensare che questo paese, questa società non si sia fermato di fronte all’aumento di tumori in tutte le fasce d’età, ma soprattutto nelle creature piccole. Da subito il mio primo pensiero è stato: ma allora si poteva fare, si poteva fermare tutto! Perché non si è fatto? Perché le lotte che hanno denunciato la relazione tra “biocidio” e aumento di patologie oncologiche in Campania hanno faticato a venire ascoltate? Perché si finanziano poco quelle ricerche epidemiologiche che consentono di individuare i fattori che incidono sull’incremento dei tumori? Perché non si investe di più sulla prevenzione puntando alla trasformazione della nostra società e del nostro rapporto con l’ambiente per ridurre o eliminare questa patologie? Come mai in quel caso desiderio di salute dal basso e decisioni governative dall’alto non si sono incontrati, ma anzi scontrati anche violentemente? Una risposta – parziale – mi è venuta dall’idea che il tumore non è contagioso. In realtà ogni “sventura” – come la chiama Simone Weil – condanna chi ne è afflitto e in quanto tale viene respinta, dunque evoca sempre il contagio. Ma la “sventura” si può nel caso del tumore recintare, confinare, relegare alle vite di chi incontra questo dramma. Ci si può voltare dall’altra parte.

Invece il contagio diventa un vettore e un acceleratore incredibile di dinamiche di potere, esso produce un doppio effetto immediato, vista l’intensità, la velocità e la diffusione che lo caratterizzano. Da una parte diffonde uniformità nelle persone sulla base della paura (ognuno ha avuto paura di venire contagiato – anche grazie ai media che ci hanno tenuto a diffondere l’idea che non era vero che morissero e si ammalassero “solo” gli anziani, ma anche i giovani e i bambini – oppure di contagiare i propri cari). Dall’altra parte il contagio permette da secoli di creare “stati di eccezione” in cui i governi possono revocare le libertà individuali e sperimentare tecniche di disciplinamento dei corpi. “L’epidemia – come dice Benasayag – è il sogno di ogni tiranno, tutti diventano obbedienti per volontà propria”, “si crea questo godimento di obbedire che lega chi obbedisce al tiranno“, perché il “biopotere” funziona così, si aggancia ad una dimensione interna al soggetto.

Dunque la scelta politica italiana – almeno apparentemente – sarebbe stata quella di farsi carico di tutte le vite, o meglio, di tutte quelle affette da coronavirus. Ma in realtà visti i pochi posti in terapia intensiva, questa scelta lo stato non ha potuto assumerla su di sé e l’ha completamente rovesciata sulla popolazione, nel timore che si vedesse il re nudo, ovvero apparisse evidente quello che ogni italiano sa da tempo per averlo vissuto sulla propria pelle e cioè che un sistema sanitario nazionale di tutto rispetto è stato sottoposto a tagli incredibili negli ultimi venti anni a vantaggio – tra l’altro – del settore privato.  Sulle prime è sembrato che i cittadini prendessero sul serio questo compito sviluppando un senso di solidarietà diffuso, ma molto presto si è capito che la strada che stavamo prendendo non era quella della presa in carico della reciproca vulnerabilità, ma quella del “terrore a mezzo stampa”, della contrapposizione reciproca, del sospetto e della paura.

Scaricare sui cittadini la responsabilità di prendere in carico tutte le vite si è rivelata presto – inoltre – un’operazione impossibile, illusoria perché da qualunque lato tu la prendi, restano fuori dal conto gli altri morti, le altre sofferenze, le altre vulnerabilità e dunque il discorso non fila, perché non ci possono essere “morti più morti di altri”. Bisognerebbe allora aggiungere la vulnerabilità di chi non ha potuto più recarsi in ospedale per paura di contrarre il virus e che potrebbe riportarne conseguenze gravi, di chi non ha potuto usufruire degli screening di prevenzione di molte malattie a causa degli ambulatori chiusi, per non parlare del “prezzo” psichico, economico, sociale che molti hanno cominciato a pagare da subito, e ogni giorno che passa sempre più persone pagheranno. Poi, a voler estendere per davvero questa idea di vulnerabilità, a voler allargare l’orizzonte della cura quasi a moltiplicarla all’infinito non ci si può limitare all’umano. Come nota Cristina Morini – riprendendo Haraway – questa pandemia ci pone davanti ad uno scenario di lutto con cui già altri esseri si confrontano da tempo se il Living Planet Index del 2018, principale indice statistico dello stato di biodiversità sulla Terra, ha tracciato una perdita del 60% dei vertebrati tra il 1970 e il 2014. Allora io chiedo: la strada tracciata in questi giorni è quella dell’“empatia, simbiosi, simbiogenesi”? Ci troviamo di fronte ad un’estensione della cura “intesa come responsabilità collettiva che coinvolge tutti i corpi, tutti indistintamente importanti, tutti indistintamente mortali”? Per niente, purtroppo.

Nelle ultime settimane ho visto il nostro paese percorso da un terribile odio, dall’irrazionale disprezzo verso gli altri. Io stessa sono pervasa da un’enorme rabbia, dovuta al fatto che – a fronte di una totale assenza di assunzione di responsabilità da parte di chi ci governa in merito alle politiche sanitarie che ci hanno condotto fin qui – mi/ci è stato chiesto moltissimo, troppo. Rinunciare ai nostri corpi, alla possibilità di muoverci, rinunciare alla possibilità di incontrarci, di riunirci, lavorare, oziare quando lo decidiamo noi, a tratti rinunciare alla possibilità di pensare e parlare. Tutto ciò imposto nella maggior parte dei casi con il più bieco autoritarismo, con una militarizzazione di alcuni territori, metodi polizemergenza, governoieschi e con un inquietante consenso totale nel paese costruito grazie ad un uso criminale dei mezzi di informazione. Si sono utilizzate metafore di guerra che hanno trasformato un “problema di salute pubblica in uno scenario di protezione civile” (Gianni Tognoni), uno scenario in cui i cittadini si sono sentiti arruolati in una lotta senza quartiere contro un nemico invisibile, che proprio perché non è da nessuna parte potrebbe essere dappertutto. “Il nemico può essere chiunque, anzi il nemico è la vita in sé, dal momento che i virus su questo pianeta sono la forma di vita più diffusa” (Angela Balzano).

Il re è nudo, dunque: viviamo in una società neoliberale che ha smantellato i sistemi sanitari pubblici nei nostri paesi. È questo che mette in pericolo la nostra salute, perché anche se è vero che le risorse di uno stato non sono mai infinite è anche vero che la quantità maggiore di ospedali, medici, posti in terapia intensiva permette di non trovarsi davanti a scelte terribili. Oggi chi ci governa e ci ha condotto verso questo baratro ci chiede di rinunciare alle nostre libertà individuali e alle forme democratiche senza un chiaro limite temporale, senza un piano minimamente trasparente di come verrà gestita una situazione che – pur nella sua drammaticità – va avanti oramai da parecchio tempo (dunque l’alibi dell’effetto sorpresa lo possiamo ritenere scaduto, se mai ha avuto valore a fronte di una pandemia prevista e immaginata da tempo). Ci viene chiesto di entrare in una crisi economica senza precedenti per questo danno commesso non da noi. Se accettiamo di addossarci per intero questa responsabilità senza reclamare da chi ci governa che si assuma le proprie fino in fondo, domani ci verrà chiesto allo stesso modo di pagare noi – uno per  uno – i costi della sospensione di questi mesi. Allora mi piacerebbe che invece di urlare a chi cammina in strada di stare a casa dirigessimo quella rabbia verso chi ha causato questa situazione e prendessimo nota di ogni cosa per il futuro, ma un futuro che cominci da domani.

Non possiamo assolutamente rassegnarci al fatto che bisogna scegliere tra uguaglianza e libertà, tra salute e libertà, tra salute e democrazia. Che cos’è questa democrazia, mi si dirà? Non l’abbiamo sempre decostruita, contrastata, non ne abbiamo sempre evidenziato i limiti? La democrazia è quello spazio che mi permette di scrivere adesso, quello spazio di attrito tra ciò che è e ciò che potrebbe essere, che mi permette oggi di coltivare la nostalgia per la libertà, gli incontri, le relazioni. In quest’ultimo mese questo spazio si è ridotto in certi momenti fino a farsi sottilissimo, fino quasi a togliermi il respiro. Per fortuna ho scoperto che la rabbia e la preoccupazione non era soltanto mia, ho potuto condividerla con altre e con altri. “Proprio di fronte a crisi di questo tipo è necessario pensare a come socializzare la rabbia e renderla politica. La rabbia verso uno stato che doveva tutelare la salute pubblica e invece ci sta portando verso una crisi economica dalle dimensioni imprevedibili” (Sara Gandini). La democrazia è lo spazio entro cui giocare il desiderio che si apra un orizzonte di vita anche in un momento così cupo. Quello spazio che permette di rivendicare libertà e vita per quelli che stanno perdendo il lavoro, per i lavoratori e le lavoratrici in “smart working”, per i detenuti, per i senza fissa dimora, per i bambini chiusi in casa da un mese senza un motivo razionale se non quello di presupporre ormai l’incapacità degli italiani di autoregolarsi, per gli immigrati, per una società ecosostenibile che provi a “tenere conto” di tutti i viventi…

Uno spazio in cui reclamare una stampa responsabile non votata al terrore, in cui esigere un piano coerente e trasparente di gestione di un problema sanitario, in cui guardare con maturità agli scienziati ed esperti, non come a delle figure ieratiche che debbano darci prescrizioni per il nostro futuro, ma come a persone che lavorano per scienze non esatte avvolte in nessi di sapere-potere. Ma la battaglia più importante adesso consiste nel rivitalizzare i nostri corpi, uscire prima possibile, radunarsi – pur con le dovute precauzioni – perché la “fase due”, così come tutte le successive, non può essere scritta solo dal manovratore, ma deve nascere dal confronto con le nostre pratiche politiche, e le pratiche politiche non emergono dalle tastiere dei computer. Non ha senso attendere un tempo senza virus, un tempo puro, sano, dobbiamo negoziare da subito le condizioni e le forme delle nostre vite “con il problema” (Haraway).

 

RIFERIMENTI

 

http://effimera.org/covid-19-rendere-politica-la-rabbia-di-sara-gandini/?fbclid=IwAR3G33uB_g4W57n25K6mNYxKVH6agLfF8s75NAQpf1dfr4g2XXAm5rc08

http://effimera.org/elogio-del-mostro-e-dellamore-in-un-pianeta-infetto-di-cristina-morini/

https://www.dinamopress.it/news/lincubatrice-mostruosa-sars-wars-cov-2/?fbclid=IwAR2zzrnSzRhpdA4l0TfjD0uJoFnXQTZY5g66khv-Yuo05ttBgHYdnO5GwLE

http://www.inchiestaonline.it/welfare-e-salute/gianni-tognoni-il-coronavirus-e-un-problema-sanitario-non-un-nemico-di-una-guerra-misteriosa/?utm_campaign=shareaholic&fbclid=IwAR1FUugR1HJKw6Se6MiOKrp-q96xQApHv19GZiu9eOwtq0DghnM4_5_8tD8

https://contropiano.org/news/cultura-news/2020/03/13/unepidemia-e-il-sogno-del-tiranno-tutti-diventano-obbedienti-per-propria-volonta-0125130?fbclid=IwAR0aN3I4WNNdNIOZbMMEbESUNveCMyTXk55bh-3I1Tji8giwEG5dZMO-z2Q

https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/04/coronavirus-nell-aria/

Scuola e didattica a distanza: una riflessione

di Anna Angelucci
(da ROARS, 11.4.2020)

Il Decreto Scuola dell’8 Aprile mira ad assicurare attraverso la didattica a distanza lo svolgimento e la conclusione di questo anno scolastico funestato dal coronavirus e l’avvio ordinato del prossimo. Nella bozza si richiama il lavoro agile come cornice di riferimento normativo per inquadrare le attività a distanza dei docenti. Pur nell’eccezionalità di un momento che richiede soluzioni d’emergenza, una riflessione si impone: se il lavoro a distanza degli insegnanti con i loro studenti dovesse essere definitivamente incastonato nella cornice giuridica del lavoro agile allora avremmo compiuto l’ultimo passo verso l’aziendalizzazione non solo della scuola ma della stessa relazione educativa.

Una didattica a distanza ordinaria e normata come smart working, di cui, in questi giorni difficilissimi e straordinari, i “piazzisti dell’istruzione” vaticinano le sorti progressive costruendosi proficue rendite di posizione, se concepita come più produttiva e competitiva, dunque preferibile a quella in presenza, e resa interscambiabile e fungibile versus quella in presenza, diventerebbe esclusivamente funzionale al suo prodotto (l’esito degli apprendimenti?), magari misurato da un Invalsi sempre più computer based, finalmente senza le fastidiose scorie emotive e affettive del nostro imperfetto e soggettivo sentire, lavorare, imparare, vivere. Ma sarebbe una torsione pedagogica epocale, con effetti professionali e antropologici devastanti. Perché chiuderebbe davvero e in modo definitivo il circolo vizioso – ‘competenze’ – ‘apprendimento’ – ‘tecnologia digitale’ – nella dimensione univoca e alienante del ‘capitale umano’.

Nell’articolo 2, comma 3 del Decreto Legge che disciplina con misure urgenti la “regolare conclusione di questo anno scolastico e l’ordinato avvio del prossimo”, in relazione alla situazione straordinaria determinatasi con l’epidemia di Coronavirus, si legge quanto segue:

“In corrispondenza della sospensione delle attività didattiche in presenza a seguito dell’emergenza epidemiologica, il personale docente assicura comunque le prestazioni didattiche nelle modalità a distanza, utilizzando strumenti informatici o tecnologici a disposizione. Le prestazioni lavorative e gli adempimenti connessi dei dirigenti scolastici nonché del personale scolastico, come determinati dal quadro contrattuale e normativo vigente, fermo quanto stabilito al primo periodo e all’articolo 87 del decreto-legge 17 marzo 2020 n. 18, possono svolgersi nelle modalità del lavoro agile anche attraverso apparecchiature informatiche e collegamenti telefonici e telematici, per contenere ogni diffusione del contagio”.

Come è noto, attualmente in Italia il lavoro agile è definito giuridicamente, ex lege 81/2017, come una performance individuale, una prestazione lavorativa autogestita, una modalità di esecuzione a distanza con l’utilizzo di strumenti tecnologici del rapporto di lavoro subordinato pubblico o privato, mediante accordo tra le parti, “allo scopo di incrementare la competitività” (capo II, art. 18, c.1) dunque accrescere la produttività del lavoratore, per ottimizzare efficacia ed efficienza dei servizi erogati.

Nel decreto scuola appena emanato si richiama l’articolo 87 del DL 18/2020 che, in forza dell’emergenza epidemiologica, prescrive il lavoro agile come modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa” a prescindere dagli accordi individuali e dagli obblighi previsti dalla legge. Nella fattispecie, vanno in deroga proprio gli articoli 18-23 della legge che normano il lavoro agile, definendone limiti, condizioni, garanzie e tutele. Tutto questo, nella fase d’eccezione che stiamo vivendo, letteralmente salta. Per i lavoratori della scuola così come per tutti i lavoratori della pubblica amministrazione.

In nota all’art. 18 della stessa legge viene richiamato l’art. 14 della legge 124/2015 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche) che specifica che :

“L’adozione delle misure organizzative e il raggiungimento degli obiettivi costituiscono oggetto di valutazione nell’ambito dei percorsi di misurazione della performance organizzativa e individuale all’interno delle amministrazioni pubbliche. Le amministrazioni pubbliche adeguano altresì i propri sistemi di monitoraggio e controllo interno, individuando specifici indicatori per la verifica dell’impatto sull’efficacia e sull’efficienza dell’azione amministrativa, nonché sulla qualità dei servizi erogati e delle misure organizzative adottate”.

È perfettamente comprensibile che l’urgenza di definire, in questa situazione emergenziale, le modalità di conclusione dell’anno scolastico in corso e di avvio regolare del prossimo imponga l’omissione di molti passaggi giuridici e contrattuali, a partire dalla libera scelta del lavoratore in accordo col datore di lavoro di eseguire la prestazione lavorativa all’esterno, e dall’obbligatorietà della stipula per iscritto di quegli accordi, sia ai fini della loro regolarità amministrativa sia con riguardo alle forme di utilizzo del potere direttivo, di controllo e disciplinare del datore di lavoro ed agli strumenti utilizzati dal lavoratore.

Comprendiamo anche che con un decreto legge si intende normare in via eccezionale la situazione contingente, come è giusto che sia, affinché si assicuri il diritto allo studio dei giovani, la funzione docente degli insegnanti, l’organizzazione di tutte le attività didattiche e soprattutto una dignitosa conclusione dell’anno scolastico. Nell’efficacia dei modi, dei tempi e delle risorse che ciascun soggetto – come persona, come gruppo, come istituzione, come sistema – può e deve garantire. Ma nei limiti temporali di una situazione contingente che non può assolutamente configurare per la scuola, in prospettiva, nessun’ipotesi di lavoro alternativa futura.

La scuola è un ambiente di lavoro che ha una sua evidente specificità rispetto a qualunque altro. L’insegnamento, l’apprendimento, i processi di conoscenza sono strettamente legati alla relazione umana ‘incarnata’. Tutto questo non ha niente a che fare con la produttività aziendale e di servizio, che è il presupposto, il fondamento ontologico e giuridico della possibilità della prestazione di lavoro agile. Tutto il lessico che descrive il lavoro agile rimanda ad una concezione del lavoro che, per statuto, non appartiene alla scuola. Non sotto il profilo semantico, non sotto il profilo giuridico. Competitività, produttività, prestazione, performance: sono parole aziendali che nulla a che vedere con la funzione culturale e sociale della scuola e con l’unico linguaggio che la esprime. Il linguaggio della Costituzione, che le assegna un mandato culturale, sociale e politico altissimo.

La scuola non è un servizio – burocratico o impiegatizio o produttivo – che può essere dematerializzato. È l’istituzione più importante del nostro tessuto repubblicano, quello dove la Costituzione stessa si incarna. La scuola è il luogo fisico dove studenti e docenti si incontrano, si conoscono, si relazionano, si guardano, si parlano, si toccano e dove la straordinaria possibilità umana garantita dal dettato costituzionale di “essere di più”, nella reciprocità di uno scambio fecondo, diventa reale.

Il lavoro che si fa a scuola, il lavoro della scuola, non è lavoro agile, né potrà mai esserlo. È un lavoro faticoso e paziente, lungo e lento, difficile, impegnativo,da condursi in presenza, nell’incontro sensoriale e dialogico tra corpi, sguardi, mani, voci. Un lavoro non distanziabile perché non riducibile alla stregua immediata della misura dei suoi prodotti. È un lavoro profondamente incardinato nei processi educativi, nei percorsi comuni che possono essere efficaci solo se si realizzano insieme, uno accanto all’altro, ove si invera l’essenza ultima della funzione docente. Ed è un lavoro di relazione profonda, ‘incorporata’, perché al di là e oltre questa dimensione incarnata non c’è nessun insegnamento, nessun apprendimento che sia veramente significativo. Nessuna scuola è davvero possibile nella sola dimensione del virtuale. Una dimensione che, nel presente e nel futuro, non può che riprodurne faticosamente un inefficace simulacro, costituendosi, all’interno della relazione educativa, come un’inauspicabile eccezione.

Se il lavoro dei docenti dovesse essere definitivamente incastonato nella cornice giuridica del lavoro agile allora avremmo compiuto l’ultimo passo verso l’aziendalizzazione non solo della scuola ma della stessa relazione educativa che sostanzia ogni attività d’insegnamento e apprendimento. Una didattica a distanza ordinaria e normata come smart working, di cui in questi giorni difficilissimi e straordinari i “piazzisti dell’istruzione” vaticinano le meraviglie progressive costruendosi proficue rendite di posizione, se concepita come più produttiva e competitiva, dunque preferibile a quella in presenza, e resa interscambiabile e fungibile, diventerebbe esclusivamente funzionale al suo prodotto, magari misurato da un Invalsi sempre più computer based, finalmente senza le fastidiose scorie emotive e affettive del nostro imperfetto e soggettivo sentire, lavorare, imparare, vivere.

Ma sarebbe una torsione pedagogica epocale, con effetti professionali e antropologici devastanti. Perché chiuderebbe davvero e in modo definitivo il circolo vizioso – ‘competenze’ – ‘apprendimento’ – ‘tecnologia digitale’ – nella dimensione univoca e alienante del ‘capitale umano’.