di Francesco Gallina
(1.6.2020)
È successo. È successo che un virus ha portato la scuola liquida al suo ultimo stadio evolutivo. Lo stadio più avanzato. Doveva succedere. Era inscritto teleologicamente da qualche parte: non l’avvento del virus, no, ma l’ingiunzione della didattica a distanza quale metodo pervasivo del fare scuola. Era predestinato nell’idea di società liquida, che equivale a dire annichilimento delle certezze, esaltazione della confusione, sacra religione della precarizzazione, eternizzazione della crisi, rimozione dei corpi. Corpi liquidi, per l’appunto, senza meta. Corpi fantasmatici. Ma la scuola è una forma di artigianato, è un fare concreto, non liquido: ché con i liquidi si “riempiono” solo gli imbuti. E soprattutto è un fare in presenza, fatto di corpi e di pensiero, esso stesso corpo dotato di un suo peso specifico che si nutre di esperienze vive, vivificanti.
È successo che si è accarezzato, e lo si accarezza tuttora da parte di molti, il sogno visionario (una distopia, a dire il vero) di trasformare una pandemia in un ripensamento radicale dello statuto ontologico della didattica da esportare e applicare al di là dei confini della pandemia stessa, iniettandolo a forza nella futura, prossima, quotidianità della trasmissione del sapere. Non dunque una fase di passaggio, non solo una meditazione ponderata su di un’auspicabile compenetrazione fra didattica in presenza e didattica a distanza, ma una vera e propria sottomissione al diktat distanziatico che si traduce, poi, concretamente, nella produzione dei braccialetti anticovid e nella configurazione dell’ambiente classe in boxes, distanziati posteggi, che fanno anche rima con ‘parcheggi’. Ma l’aula è tutto fuorché un parcheggio. Chi vi lavora sa che l’aula è un laboratorio didattico perenne, un microcosmo in cui tutto si tiene, dalla gestione delle pareti alla disposizione dei banchi così come di ogni altro elemento, assetto sempre funzionale a garantire quell’efficienza e quell’inclusività che la connaturata parcellizzazione della DAD scarnifica e sacrifica. Pratica pedagogica potenzialmente degenerante per la crescita e lo sviluppo cognitivo degli alunni se usata a sproposito e in modo “abusivo”, la DAD nella sua forma totalizzante è il vessillo di una scuola dimezzata, come il visconte calviniano. Così come una scuola imbacuccata nelle mascherine, negli elmi e nella dittatura utopica delle distanze che, fra l’altro, inibiscono il gioco (quello concreto, non la gamification), importante stimolatore di processi di apprendimento.
È successo che la pandemia, come ogni “buona” pandemia che si rispetti (Boccaccio ci sta leggendo, e ci giudica dall’alto), ha slatentizzato desideri già in fermento e ha estrapolato dal suo cappello a cilindro interpretazioni deformate e deformanti della realtà, e dunque della scuola, che della realtà è specchio e cartina tornasole.
È successo che si sia sfoderata la retorica che vorrebbe che da una crisi nasca per forza qualcosa di buono, che in una situazione catastrofica quale quella causata dal Covid19 possa nascondersi una straordinaria opportunità di rivoluzione, quando in realtà si tratta – per usare le parole di Luciano Canfora (treccani.it, 13.5. 2020) – «di un disagio del quale liberarsi quanto prima, mentre c’è chi invece teorizza che si sia aperta una prateria di cose meravigliose». Ed è successo che ci si è messa di traverso anche la virologia in salsa massmediatica, che ha mandato in tilt l’Italia intera, infiltrando terrore in ogni poro, al suono di “Lo dice la Scienza” (ecco, appunto, che cosa dice? che non s’è mica ancora capito). È vero: le crisi non possono e non devono essere sprecate. E proprio perché la parola ‘crisi’ implica etimologicamente una decisione, una scelta, è bene che questa miri a un vero beneficio.
È successo che si sia passati dal provenzale amor de lonh alla didattica de lonh. Che se il fare scuola in presenza è una eccezionale forma di erotica che si fonda sulla buona coltivazione dei saperi e delle intelligenze, la didattica a distanza è esattamente il suo opposto, fatto di assenza e ricerca inappagata dei corpi e dei loro pensieri, schiacciati e appiattiti come lo sono gli schermi dai quali traspaiono. Non solo la parola assume la consistenza del flatus vocis, ma si perde e si banalizza con essa la prossemica, la cinesica, l’oggettemica, persino la vestemica. Si perde di vista la vita: DAD or DEAD? This is the question.
È successo che l’ultimo grado della scuola liquida costituisse anche l’integrale infrazione degli spazi, dei limiti e dei ruoli. Mai era successo nella Storia che gli alunni entrassero nelle case dei docenti, e viceversa. E mai era successo che i docenti non potessero più vedere in molti casi i volti dei loro alunni, le loro reazioni, le loro voci o per questioni di privacy o per questioni… altre. Mai era successo che la scuola si riducesse a una chat, a un link, a una conference call, a un conglomerato di pixel. Mai era successo che la scuola divenisse un fantasma, nonostante i compiti sulla bacheca, i moduli di Google, i video su Youtube.
È successo, infine, che un virus ha cambiato il volto della scuola – sembra – in modo decisivo varcando il perimetro della fase emergenziale, che ha preso le forme di una generalizzata ‘prova generale’ in vista di qualcosa che è altro rispetto all’emergenza. Sembra che lo strumento tecnologico, fondamentale se usato cum granu salis, abbia soppiantato con successo le relazioni complesse della scuola della Costituzione, in vista di una scuola settembrina che su carta pare più un incubo che una scuola (che ne sarà, ad esempio, dei laboratori professionalizzanti?). Il virus è diventato per alcuni un elettrostimolatore, l’occasione aurea per dare finalmente corpo a una nuova scuola che corpo, però, non ha.